Il destino dell’Ucraina riveste un’importanza particolare per gli equilibri politici internazionali, a causa della posizione delicatissima di questo paese, situato proprio alla giunzione tra due sfere di influenza. Nei giorni scorsi la visita di Bush in Europa ha offerto a Yushenko l’occasione per rivendicare ancora una volta, con l’avallo del Presidente americano, la volontà dell’Ucraina di entrare a far parte della NATO e di aprire i negoziati per l’adesione all’Unione europea. Da parte degli Stati Uniti, questo atteggiamento di sostegno attivo all’allontanamento dell’Ucraina dalla Russia, velato ipocritamente dall’ideologia dell’esportazione della democrazia, ispirato dalla tradizione del realismo politico, in base al quale ogni potere deve porsi innanzitutto l’obiettivo di indebolire i potenziali avversari. Fin dal crollo dell’Unione sovietica, nonostante le inevitabili concessioni dovute alle dimensioni e alle ricchezze russe, questo è stato l’orientamento costante della politica americana, ed su questa base che gli USA hanno operato negli ultimi tempi per indebolire non solo in Ucraina, ma anche in Georgia – apprestandosi a fare altrettanto nelle altre repubbliche caucasiche, in Moldova e in Bielorussia. – l’influenza russa. Il caso dell’Ucraina è particolarmente significativo e decisivo dato il legame storico, politico ed economico di questa con la Repubblica russa.

In questa ottica, tre questioni fondamentali restano da chiarire: la prima è se l’interesse dell’Ucraina coincide davvero con l’ingresso nella NATO e, anche se in tempi sicuramente non brevi, nell’Unione europea, di cui costituirebbe un’estrema periferia. La seconda riguarda l’atteggiamento degli Stati Uniti, per capire se esso rappresenta una corretta applicazione del principio della ragion di Stato e se quindi è adeguato ai fini della difesa degli interessi americani nel mondo. La terza investe l’Europa e il suo specifico interesse nei confronti della Repubblica russa: coincide davvero con l’attuale politica americana? E in generale è utile l’approccio europeo fondato esclusivamente sull’ideologia dell’allargamento dell’orbita della democrazia come se la politica non dovesse confrontarsi con il problema del potere?

Per quanto riguarda le prospettive dello sviluppo economico dell’Ucraina, la risposta è aperta, ma sicuramente, tenendo conto della profondissima interdipendenza che esiste tra questo paese e la Russia, il vantaggio di diventare il cavallo di Troia degli Stati Uniti nei confronti della Repubblica russa o la periferia dell’Unione, con tutte le ambiguità, i ricatti e le tensioni che questo implica, non è così certo (attualmente il 35.8% delle importazioni ucraine provengono dalla Russia e i complessi industriali dei due paesi sono complementari in molti campi, in particolare in quello aeronautico e spaziale e in quello degli armamenti, oltre al fatto che le reti russe di trasporto dell’energia verso l’Europa passano attraverso il territorio ucraino). Così come questo processo non offre garanzie assolute del radicamento della democrazia nel paese, che già con Kuchma aveva sperimentato un governo filooccidentale, anche se in termini più moderati e più utilitaristici (alla Eltsin), cadendo però al tempo stesso vittima di una corruzione dilagante che ha portato la nazione sull’orlo del disastro.

Per quanto riguarda il consolidamento del potere americano nel mondo, il tentativo di estendere indefinitamente la propria area di influenza e la propria egemonia porta gli Stati Uniti più a logorarsi che non a rafforzarsi. Il fatto di cercare di assumersi responsabilità che superano le risorse di cui dispongono provoca inevitabilmente insuccessi e accresce le aree di instabilità, insieme all’antiamericanismo. In questo caso specifico il tentativo di destabilizzare la Russia circondandola di paesi deboli e infidi, senza perseguire alcun disegno preciso, non può che portare ad un aumento, sullo scacchiere internazionale, del caos e della disgregazione, e quindi ad una diminuzione, anziché a una crescita, della leadership statunitense in un mondo sempre più anarchico.

Infine, l’Europa. I paesi europei sembrano completamente ignari del fatto che la loro politica è, in buona sostanza, al servizio della politica estera americana, e si illudono al contrario di incarnare un nuovo modello di “potenza pacifica”. In una fase in cui il ritardo politico, economico e tecnologico rispetto agli USA sta crescendo in modo preoccupante, l’Europa si culla nell’idea che i grandi progressi compiuti dalla fine della seconda guerra mondiale alla fine della guerra fredda siano stati possibili proprio grazie al suo rifiuto di assumersi responsabilità nella politica estera e di sicurezza.

Il fatto di aver investito le proprie risorse esclusivamente nell’innalzamento del proprio livello di vita, sia sotto il profilo economico che sociale e culturale – senza vedere che ciò è stato reso possibile proprio dall’equilibrio bipolare, dalla tutela della NATO e dal dominio del dollaro – sembra agli europei il grande esempio da esportare nel resto del mondo e la scelta che permetterà loro di recuperare anche in futuro il divario rispetto alle altre aree al momento tanto più dinamiche o tanto più potenti. Ma in questo modo gli europei semplicemente rifiutano di vedere sia la propria debolezza e la propria impotenza sia il fatto che le condizioni che hanno loro permesso di prosperare senza doversi assumere responsabilità nello scacchiere internazionale non esistono più. Gli equilibri mondiali continuano a basarsi sulla forza e sul potere e l’Europa si sta semplicemente emarginando, accettando di indebolirsi con un allargamento non governato, che non la rafforza ma la diluisce, e creando le premesse per accrescere l’instabilità ai propri confini.

Uno Stato federale europeo al posto degli impotenti Stati nazionali della vecchia Europa saprebbe recuperare la capacità di avere un ruolo nel quadro internazionale, non avrebbe bisogno di nascondersi dietro il paravento del soft power e saprebbe perseguire la propria ragion di Stato, che coincide con una gestione responsabile delle tensioni che nascono ai suoi confini, consolidando gli Stati limitrofi e non contribuendo alla loro disgregazione in nome di principi astratti che, nel contesto attuale, servono solo a fornire una copertura ideologica al potere americano. La cosa non implicherebbe la fine della politica di allargamento dell’orbita della democrazia, anzi: ne sarebbe la vera realizzazione, perché non sarebbe più la velleità di un gruppo di staterelli satelliti della potenza egemone, ma la grande politica responsabile di uno dei maggiori poli dell’equilibrio mondiale che avrebbe nella stabilità e nello sviluppo delle aree limitrofe il suo interesse precipuo.

E’ assai probabile che la Russia, con le enormi risorse politiche, economiche e militari di cui dispone, riuscirà a sopravvivere, anche se sicuramente pagherà il prezzo di un rallentamento del processo di democratizzazione e anche se rischieranno di rinascere tensioni e contrapposizioni simili a quelle del passato. Ma per noi europei si tratta di prendere atto ancora una volta del fatto che la nostra disunione è una fonte di instabilità ed è una delle cause del drammatico degrado della vita politica internazionale.

 

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