Il problema della riforma del sistema di voto a maggioranza in seno al Consiglio europeo è una delle questioni più spinose sul tappeto in vista dell’approvazione del nuovo Trattato da parte degli Stati membri; si teme che le indicazioni di intesa concordate in occasione del vertice di Bruxelles del giugno scorso possano essere rimesse in discussione dai paesi che maggiormente mirano alla difesa delle sovranità nazionali, in primis la Polonia. Paradossalmente, quindi, questa situazione spinge i sostenitori dell’approfondimento del processo di integrazione europea a farsi paladini del compromesso raggiunto, come se esso rappresentasse davvero un progresso per l’Europa.

In realtà è importante essere consapevoli del fatto che, qualunque riforma venga approvata, le cose all’interno dell’Unione non cambieranno molto. La contrapposizione in atto è semplicemente uno scontro tra Stati sovrani che mirano a massimizzare la propria influenza attraverso la promozione o la conservazione di complicati meccanismi di ponderazione dei voti. Il vero obiettivo è, di fatto, quello di limitare il ricorso al voto – in vista del quale soglie o percentuali difficili da raggiungere fungerebbero da deterrente –, oppure di prefigurare coalizioni di voto o di blocco delle decisioni tali da rendere sempre meno probabile l’utilizzo dell’impopolare e antidemocratica arma del potere nazionale di veto.

A ben guardare, quindi, la vera sostanza del dibattito sulla riforma del voto riguarda la limitazione del ricorso stesso al voto. Dietro le cervellotiche formule giuridico-matematiche dei sistemi di ponderazione si nasconde in realtà la volontà di conservare lo status quo ed i rapporti di forza tra Stati in un’organizzazione internazionale. La discussione che ha visto come protagoniste Polonia e Germania – a proposito del mantenimento o meno del tipo di votazione adottato con il Trattato di Nizza oppure della formula proposta nel Trattato costituzionale – non fa eccezione. Da un lato la Polonia ha proposto – sarebbe meglio dire ha riproposto, in quanto si tratta di un meccanismo studiato da un matematico britannico negli anni quaranta per rendere più agevole il funzionamento degli organismi internazionali – di calcolare il peso degli Stati membri dell’Unione sulla base della radice quadrata della popolazione, per diminuire le chances di paesi come la Germania di guidare coalizioni di maggioranza o di blocco. Dall’altro lato la Germania e altri grandi paesi difendono la formula di voto a maggioranza prevista dal Trattato costituzionale (55% degli Stati membri rappresentanti il 65% della popolazione), proprio per garantirsi un vantaggio negoziale rispetto ai paesi più piccoli. Tutto ciò non ha niente a che fare con l’effettivo aumento della democraticità e dell’efficacia delle istituzioni europee.

Gli esperti dei governi, attraverso l’uso di particolari ma non così ignoti indici, visto che sono in uso dagli anni sessanta, hanno calcolato le probabilità di successo, cioè di prendere una decisione a maggioranza qualificata in uno dei campi specificati nei trattati. In base a questi calcoli, nell’Europa dei quindici questa probabilità sarebbe stata dell’8% mentre con il trattato di Nizza sarebbe scesa al 3%. L’adozione della formula proposta dal Trattato costituzionale la porterebbe al 13% (sic!). Ora, nessun paese democratico, e a buona ragione, baserebbe il proprio sistema decisionale su una simile lotteria.

Perché il voto a maggioranza è comunque sempre solo una funzione dei rapporti di forza all’interno di un’Unione di Stati indipendenti e sovrani nelle materie cruciali, lo ha sottolineato bene anche un giornalista, Wolfgang Münchau, in un articolo apparso sul Financial Times del 17/6/07 (“Multiple answers to Europe’s maths problem”), in cui ha ricordato come “il potere di voto in organizzazioni multinazionali come l’Unione europea non dipende dal peso specifico del voto, ma dalla dinamica delle coalizioni di Stati. In questo gioco, i grandi paesi sono avvantaggiati. Quanto accadeva ai tempi dell’Europa dei Sei è significativo. La Germania, la Francia e l’Italia pesavano per quattro voti a testa, i Paesi Bassi e il Belgio pesavano per due e il Lussemburgo per un voto. La Germania pesava per più di cento volte in termini di popolazione del Lussemburgo, ma solo quattro volte in termini di voti. In questo modo si poteva dire che il piccolo Lussemburgo era sicuramente sovra-rappresentato. In realtà, era vero il contrario, in quanto, il fatto di aver posto una soglia di dodici voti per la validità di un voto a maggioranza faceva sì che, dato che tutti i paesi, tranne il Lussemburgo, disponevano di un numero di voti pari, il voto del Lussemburgo non potesse mai essere decisivo. Il Lussemburgo era quindi sovra-rappresentato, ma il suo potere – a parte quello estremo di veto – era nullo. Diversa sarebbe stata la situazione se fosse stata scelta una soglia dispari di voto per la validità della maggioranza”.

Il punto è che, finché si resta prigionieri di questo imbroglio della maggiore o minore “democraticità” di un sistema di voto – o meglio di non-voto – a maggioranza nell’Unione europea, non si esce dalla logica del confronto tra Stati sostanzialmente sovrani che domina il funzionamento di tutte le organizzazioni internazionali e le confederazioni. Solo con l’instaurazione di un potere federale si supera questa logica. Ma ciò implica creare uno Stato federale europeo. Per questo chi ha a cuore il destino dell’Europa e della democrazia dovrebbe innanzitutto porsi il problema di come e tra chi costruire un simile Stato, e non diventare complice di chi mantiene l’Europa divisa e impotente.

 

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