La prossima elezione del Parlamento europeo da parte di venticinque paesi appare senza dubbio un fatto di proporzioni grandiose, segno di una nuova fase storica del continente che suscita speranze, resistenze, apprensioni. Ma alla grandezza del fenomeno non corrisponde affatto un pari peso politico. Anzi, avremo una Unione più inceppata e un Parlamento più impotente di prima. Insomma, il voto di giugno è una medaglia con due facce diversissime: una fatta di speranze, l’altra di incertezze e rischi pesanti.

Partiamo dal positivo. Si corona l’attesa di dieci Paesi che hanno visto nell’Occidente europeo un modello di sviluppo, di democrazia e libertà, di integrazione e pacificazione. Essi entrano nell’ultima fase di un percorso che per loro (e per Bruxelles che ha guidato l’operazione) è stato intenso e complesso, tra riforme democratiche, nascita di una economia di mercato, recepimento di tutto un complesso di norme comunitarie create lungo mezzo secolo, risanamento di bilanci, riconoscimento di diritti civili, rispetto delle minoranze etniche, libertà sindacale e via dicendo. Un immenso sforzo che essi hanno affrontato per la forte attrazione esercitata dal modello comunitario e forse, più o meno consapevolmente, per la sensazione che qualcos’altro, qualcosa di più grande potrà sbocciare col tempo in Europa. L’Unione sposta molto avanti i suoi confini (e dovrà affrontare problemi nuovi e complessi per il loro controllo). Nasce un quadro nuovo di sviluppo economico, non privo di ostacoli ma promettente. E nasce uno spazio di incontro politico, culturale, sociale fecondo che farà scoprire sempre più chiaramente i profondi legami che la storia ha intrecciato nei secoli sul continente. Un quadro che sempre più farà pensare a cosa potrebbe essere l’Europa, di fronte alle emergenze del mondo, se fosse uno Stato federale anziché questa fragile aggregazione di Stati sovrani. Perché tale è, e resta, l’Unione.

Le incertezze sono grandi e pongono su queste elezioni, a chi rifletta spassionatamente, pesanti interrogativi. Esse appaiono quasi un rito che (almeno per i “quindici”) si consuma da tempo ma con sempre minor impatto sulla realtà. Poco più che un sondaggio elettorale a fini di politica interna. Perché il nuovo Parlamento non solo ha tutti i limiti di prima (assemblea che è eletta dal popolo ma che ha un potere legislativo limitato; che non esprime né controlla un governo; che si deve muovere entro gli stretti paletti che anche il nuovo trattato, impropriamente chiamato “costituzione”, gli assegna: insomma, un Parlamento che dopo venticinque anni non è ancora un Parlamento); ma si troverà a operare dentro un’Unione che non è riuscita a coniugare con la sua nuova vastità un rafforzamento delle sue istituzioni atto a darle maggiore efficienza e capacità decisionale, e nemmeno a conservarne il livello attuale in un quadro così mutato. Una Unione in cui la componente intergovernativa ha accresciuto il suo peso: e dico peso e non potere perché il Consiglio è ormai inceppato non da quindici ma da venticinque diritti di veto, e l’unico potere “forte” che ha è quello di bloccare, o ridurre a sterile compromesso, ogni decisione di rilievo, salvo snocciolare, questo sì, tante “dichiarazioni solenni”, tutte senza alcuna conseguenza. Questo dilatarsi del peso dei governi nazionali non può che indebolire il ruolo del Parlamento, mentre pure la Commissione europea, unico organo su cui il Parlamento esercita un controllo, vede compresso e mutilato il suo ruolo.

Molte sono le cause di questa situazione di stallo. “Una delle cause più evidenti dell’appannarsi del progetto europeo” – notava Thomas Ferenczi qualche tempo fa su Le Monde in un articolo intitolato “Europe: la crise des partis fondateurs” – “è l’indietreggiare delle forze politiche che l’hanno difeso contro venti e maree da oltre mezzo secolo”. E in effetti le due grandi famiglie politiche, popolari e socialisti, hanno perso il loro carattere di forze propulsive dell’unificazione, annacquate ad ogni allargamento dall’adesione di partiti estranei a ogni tradizione europeista. Né è pensabile che con l’allargamento attuale le cose vadano meglio: anzi, una ventata di nuovi nazionalismi verrà dai paesi dell’Est e creerà, almeno per qualche anno, un quadro politico più difficile, in cui l’integrazione è destinata a bloccarsi.

Tutto questo mentre la vastità dei problemi globali, sempre più drammatici e incombenti, in assenza di unità politica, accentua la frammentazione europea e incoraggia la potenza americana nella politica del divide et impera. Non solo: lo stesso euro è a rischio: un’unione monetaria non sostenuta da una unità di governo economico, di politica fiscale, di bilancio, sui tempi medio-lunghi può andar incontro a tempeste di fronte alle quali non ha difese. È preoccupante, ma non infondata, l’analisi di Jim Rogers, esperto finanziario a suo tempo socio di George Soros, che su Le Figaro del 16 marzo scorso notava come in passato nessuna unione monetaria [fra Stati] è durata più di una decina o quindicina d’anni e diceva con rammarico: “non credo alla sopravvivenza dell’euro al di là dell’orizzonte d’una decina di anni” (ma noi dobbiamo aggiungere: “…se non nasce lo Stato europeo”!).

C’è dunque da temere che questa assemblea legittimata dal voto popolare finisca per perdere qualunque senso? Che questo primo embrione di democrazia internazionale, esperimento assolutamente inedito su cui giustamente i federalisti avevano puntato in anni lontani come possibile inizio di una storia nuova, abortisca? Una speranza c’è, l’abbiamo detto più volte. In questo spazio vasto della nuova Europa che rischia di ridursi ad una unione doganale, l’iniziativa di un gruppo di Paesi pionieri deciso a fondare un primo nucleo dello Stato federale potrebbe rapidamente capovolgere la situazione e aprire, davvero questa volta, una nuova storia europea. Iniziativa che difficilmente può partire da un ambito diverso da quello dei Paesi fondatori, ma che potrebbe coinvolgere rapidamente, forse anzi subito, sul nascere, altri Stati sia fra i “quindici” sia fra i dieci nuovi. Allora anche gli europarlamentari eletti nei Paesi partecipi alla fondazione federale potrebbero avere un ruolo importante, tessitori di intese e forse attori di una Costituente.

 

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