Chi avrebbe mai immaginato che lo stralcio degli accordi di libero commercio con l’Unione europea da parte del governo di Yanukovich, ci avrebbe condotto ad una crisi politica internazionale tra Russia da una parte e USA ed Europa dall’altra, rievocando scenari da Guerra fredda? L’incertezza sul futuro dell’Ucraina è totale e molto dipende dalle future mosse della Russia di Putin e dagli USA di Obama. In questi giorni l’apice della crisi appare essere l’annessione della Crimea (territorio strategico per le basi navali militari russe) attraverso un referendum. Le conseguenze di questo gesto politico possono innescare un fenomeno di balcanizzazione con esiti molto drammatici. Sarajevo docet.

Nella crisi di Kiev l’Unione europea sta giocando una partita in cui “si considera” un giocatore alla pari con la Russia, come se entrambi fossero due attori politici mondiali dello stesso peso politico. In realtà è emerso con chiarezza (un’altra volta!) che il “re è nudo”: in questa partita l’Unione europea c’è solo di nome ma non di fatto, perché dietro alla voce (e alla poltrona) dell’Alto rappresentante per la politica estera europea non esiste una compagine politica per far valere la posizione e il ruolo dell’Unione europea; soprattutto a fronte di un avversario come la Russia che, nonostante i numeri sfavorevoli in termini di forza economica e demografica, dispone di mezzi di pressione in politica estera (dalle materie prime alla forza militare) infinitamente superiori a quelli europei. Basti pensare al ricatto energetico durante l’inverno, o alla possibilità di concedere prestiti in quantità e qualità imparagonabili per sostenere la crisi economica ucraina; oppure, infine, alla possibilità di intervento armato, ufficiale e non, nel caso che la situazione a Kiev precipitasse.

L’Ucraina è l’ennesimo banco di prova – dopo le crisi in Egitto, Libia e Siria – dell’inconsistenza della Politica estera e di sicurezza comune (PESC) così come definita dal Trattato di Lisbona. La ragione vera è dovuta al fatto che l’Unione europea non è uno Stato federale come gli USA, bensì una confederazione (benché dotata di embrionali poteri federali quali la moneta e la banca centrale). La politica estera è la definizione delle priorità e degli interessi di ciascun paese nell'ambito delle relazioni che i governi dei vari Stati della comunità internazionale intrattengono tra di loro. Ogni Stato definisce la propria politica estera con l’obiettivo dichiarato di garantire al proprio popolo le condizioni di sicurezza necessarie al perseguimento del proprio progresso economico e sociale. Nel caso della crisi in Ucraina, l’interesse europeo consisterebbe nel poter contare su un vicino stabile, democratico e liberale, rispettoso dei diritti umani, aperto all’Europa e in grado di non subire l’influenza quasi imperialista della vicina Russia, che la ricatta per la sua dipendenza energetica e la seduce con generosi prestiti. Un paese, al tempo stesso, capace di fare da ponte tra l’Europa e Mosca. Oggi, l’Unione europea, con gli strumenti di cui dispone, non è in grado di promuovere un passaggio dell’Ucraina verso questa direzione, e, al contrario, si ritrova impotente e confusa tra le due fazioni in lotta.

Eppure, in Europa, da decenni vari Stati membri hanno creato una comunità di destino, integrandosi e avviando forme di solidarietà concreta; hanno, di fatto, unificato le proprie economie alla ricerca di un nuovo spazio sociale ed economico in grado di dare benessere e opportunità maggiori ai popoli europei. Ciò ha portato di fatto ad un graduale spostamento degli interessi da proteggere: non più i singoli interessi nazionali ma i comuni interessi europei. Però questi interessi ricevono poca o nessuna difesa dalle istituzioni europee all’estero perché le istituzioni non possiedono né il potere di assumere impegni di responsabilità in nome e per conto dei cittadini europei né il potere amministrativo di realizzarla (arrivando a costituire delle inutili duplicazioni tra diplomatici Ue e diplomatici nazionali). Non basta creare un Alto rappresentante e un corpo diplomatico per avere una politica estera degna di questo nome, dato che questo è solo la facciata della politica estera: quello che serve è trasferire il potere democratico (e quindi responsabile e controllato da un Parlamento) di definizione della politica estera. È qui il nodo gordiano che non hanno ancora sciolto i governi europei con un atto di coraggio: trasferire il potere sovrano degli Stati nazionali in politica estera all’Unione europea (anche se al momento questa ipotesi è realizzabile solo nel quadro degli Stati membri dell’eurozona dove gli interessi economici e sociali sono maggiormente integrati) per difendere così i suoi cittadini e i suoi valori di libertà, uguaglianza e solidarietà nei confronti di tutte le minacce esterne, presenti e future. Senza questo trasferimento di poteri, reso certo e irretrattabile dalla redazione e approvazione di una Carta costituzionale, è impossibile per l’Unione europea agire nel contesto ucraino perché la politica estera europea è in realtà la sommatoria delle 28 politiche estere degli Stati membri. Infatti per agire l’Alto rappresentante deve prima convocare un Consiglio dei 28 ministri degli esteri europei, per trovare una posizione comune e unanime, e ciò perché il vero potere in politica estera è ancora in mano agli Stati membri, anche se condizionato dalla cooperazione e dai vincoli del Trattato di Lisbona.

Un simile discorso va realizzato anche per il settore della difesa e della sicurezza. Politica estera e politica di difesa sono facce della stessa medaglia: con la prima, lo Stato sceglie e definisce le sue priorità in relazione con gli altri Stati, mentre la seconda è lo strumento di ultima istanza per far valere le proprie ragioni e priorità fuori dei propri confini. Anche in questo settore i progressi compiuti dall’Unione europea sono stati scarsi, nonostante i tanti proclami per realizzare una difesa europea: la difesa deve esserlo in senso militare e non solamente civile e deve assolvere anche al compito di controllo del territorio e non essere solo motivo di razionalizzazione degli armamenti per esigenze di bilancio; e deve essere europea, ossia indipendente e non subordinata, attraverso la NATO, agli USA per le decisioni strategiche e sugli armamenti da acquistare (il caso più noto è l’acquisto italiano di F 35, aereo di produzione americana in luogo dell’Eurofighter). Potrebbe valer la pena di citare Robert Cooper, ex-consigliere del Primo ministro Tony Blair, che ricorda come la difesa europea non può essere garantita per sempre dagli americani: “è estremamente grave che 500 milioni di europei si affidano a 315 milioni di americani per essere difesi. La difesa gratuita non esiste. Nessuno sa esattamente come e quando, ma ad un certo momento gli europei si troveranno a dover pagare per questa soluzione”.

Il rifiuto dell’indipendenza porta alla dipendenza, il rifiuto del potere porta ad essere impotenti. La nostra prima occasione sono le elezioni europee: possiamo scegliere di smettere di essere miopi, ed iniziare a prenderci cura della nostra parte di mondo votando il partito che meglio rispecchia l’esigenza e l’urgenza di cambiamento delle istituzioni europee in senso federale.

 

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