Dopo un anno e mezzo di lavoro, la Convenzione sul futuro dell’Europa ha completato i suoi lavori e il 20 giugno ha consegnato ai Capi di Stato e di Governo una bozza di Trattato-Costituzione.

L’evento è stato salutato in tutta Europa con apprezzamento praticamente unanime e spesso con entusiasmo: “L’Europa a una svolta storica”, “L’Europa si dà una Costituzione”, “Un Ministro degli Esteri europeo per parlare con una voce sola nel mondo”, “L’Europa trova finalmente la via delle riforme”. Davanti a tanta retorica, è necessario provare a distinguere le parole dalla sostanza, la realtà dalle illusioni.

Il risultato della Convenzione ha solo il nome di Costituzione. In realtà esso rimane un trattato tra Stati nazionali, che può essere ratificato e ulteriormente emendato solo con l’accordo unanime di tutti gli Stati membri. L’Unione disegnata da questa Costituzione rimane un’Unione senza una politica estera e di sicurezza uniche e senza una politica economica e fiscale autonoma. In questi campi l’Unione al massimo promuove e coordina politiche nazionali, se e quando l’unanimità degli Stati membri lo consente. La nuova Unione rimane con due pseudo-governi. Uno debole, la Commissione, che anche se sottoposta al voto del Parlamento, continua a essere nominata dai Capi di Stato e di governo, a non essere l’espressione politica del voto dei cittadini europei, e a non avere né l’autorità né i poteri di governo nei settori essenziali della vita dell’Unione. Uno apparentemente solido, il Consiglio, che rappresenta gli Stati membri, che continua a essere in parte legislativo e in parte esecutivo, e che si dota di un Presidente dal mandato esteso, in fondo anch’esso debole perché somma di ormai venticinque volontà nazionali e non centro di una volontà europea.

Tutto il resto, le novità positive portate dalla Convenzione, sono solo parole o cambiamenti inessenziali. L’Unione non è più divisa in pilastri e ha una singola personalità giuridica, ma in realtà è ben chiaro su cosa l’Unione può decidere davvero (mercato unico e concorrenza) e su cosa non può decidere (quasi tutto il resto). La Carta dei Diritti è integrata nella Costituzione, ma i diritti che proclama o sono principi che nell’Europa di oggi sono già saldamente protetti o sono diritti programmatici, legati cioè alla promozione economica, sociale e ambientale, che l’Unione ha ben poco potere per promuovere e che quindi rimarranno sulla carta. L’Unione deciderà in molte più materie a maggioranza, ma la realtà è che su tutte le materie chiave rimane l’unanimità e che anche le decisioni a maggioranza rimangono il risultato del patteggiamento tra rappresentanti nazionali, non la decisione di una istanza europea con legittimità e autonomia proprie. Il Ministro degli Esteri è a parole europeo, ma la politica estera e di sicurezza (per non parlare di quella di difesa) rimangono nel Trattato-Costituzione e ancor più nei fatti agli Stati membri. Cosa avrebbe potuto, e dovuto, fare il Ministro degli Esteri Europeo durante la crisi con l’Iraq davanti alla divisione tra gli europei e i contrasti con gli Stati Uniti? Avrebbe semplicemente preso atto che tra gli europei esistevano visioni, e interessi, profondamente divergenti e che l’Unione non aveva né i poteri né le risorse per fare alcuna politica propria. Per questo fanno sorridere i paragoni con la Convenzione di Filadelfia che elaborò la Costituzione degli Stati Uniti d’America e i tanti entusiasmi per la pseudo-Costituzione senza Stato prodotta dalla Convenzione.

Eppure sarebbe inutile se non anche un po’ infantile criticare il lavoro e il risultato della Convenzione. La Convenzione ha in realtà eseguito il mandato affidatole. Doveva preparare una bozza di Trattato accettabile da tutti gli Stati membri dell’Unione. Lo ha fatto. La Convenzione ha prodotto una Costituzione per l’Unione che esiste, non per una ipotetica federazione europea che nessuno ha deciso di creare, che nessuno ha proposto agli europei, e che quindi oggi non esiste. E l’Unione che esiste oggi è profondamente divisa. Alcuni paesi condividono una sola moneta, altri (Gran Bretagna, Danimarca e Svezia) la rifiutano e altri ancora (i nuovi Stati membri) si porranno il problema solo tra molti anni. Alcuni paesi (pochi, la Francia, il Belgio, e una tentennante Germania) vedono l’Europa come un possibile polo autonomo della politica mondiale, altri paesi (Gran Bretagna e molti dei nuovi Stati membri dell’Europa centrale) hanno deciso che saranno sempre e comunque al traino degli Stati Uniti. Alcuni hanno alle spalle una lunga storia di integrazione cominciata col rigetto della guerra, altri sono ancora giovani democrazie all’inizio del cammino di integrazione europea. E la Francia e la Germania i paesi al centro dell’Europa e del progetto di unificazione europea continuano a oscillare tra velleità di autonomia europea, illusioni di sovranità nazionale residua e incapacità di credere nella federazione europea. Questa è l’Unione (o, meglio, la Divisione) di oggi a cui la Convenzione ha dato l’unica Costituzione possibile.

Che fare quindi? Molti preparano battaglie di retroguardia. C’è chi pensa che nei prossimi mesi si potrà suscitare una tale pressione popolare da costringere la Conferenza Intergovernativa a migliorare il risultato della Convenzione. Il torpore con cui la classe politica e l’opinione pubblica europee hanno accolto il Trattato-Costituzione, e il fatto che Conferenza dovrà decidere comunque all’unanimità, rendono chiaro quanto questa linea sia illusoria. Altri si apprestano a chiedere un’altra Convenzione che tra 5, 10, 15 anni faccia fare un ulteriore passo avanti all’Unione. Questa sarebbe però solo la linea della rassegnazione, perché nel frattempo l’Europa scivola sempre più verso i margini della politica mondiale, perde tutte le occasioni di crescita e di rinnovamento, accresce le sue divisioni, forse per sempre. Altri ancora sperano che la Costituzione abbia dei piccoli elementi di dinamica interna che scateneranno nuove battaglie all’interno dell’Unione e la faranno evolvere. Tutte queste battaglie per l’evoluzione dell’Unione, con le migliori intenzioni, sono condannate alla marginalità o all’inutilità. Bisogna prendere atto della realtà: l’Unione non evolverà verso una federazione a venticinque, con un suo governo, la pienezza della sovranità nel campo della politica economica e della politica estera e di difesa, una sua vita autonoma dagli Stati membri. Le divisioni che attraversano l’Unione sono strutturali non temporanee. l problema oggi è un nuovo atto fondatore per andare oltre l’Unione..

Ora che la Convenzione ha stabilito un quadro costituzionale, anche se debole e poggiato su fragili compromessi, per tenere insieme i pezzi di un’Unione allargata a tutto il continente, è possibile riprendere il progetto di una “federazione in una confederazione rappresentata dall’Unione allargata”, che lo stesso Giscard d’Estaing aveva proposto anni fa e che ha dimenticato nei mesi della Convenzione. Bisogna capire se esistono ancora tra gli europei, o in una parte di essi, la volontà e il coraggio per fare il salto verso uno Stato federale europeo. E’ possibile che la risposta sia no, che gli europei si rassegnino all’Europa che esiste, che non sappiano neppure pensare prima ancora che volere gli Stati Uniti d’Europa. Ma se esiste un debolissimo barlume di speranza che questa volontà e questo coraggio possano manifestarsi in una parte degli europei, questo non potrà accadere che tra i Paesi fondatori, quei paesi che hanno cominciato l’avventura europea con la Dichiarazione Schuman e che, anche nei lavori della Convenzione, hanno dimostrato come questo marchio d’origine conti ancora. E’ responsabilità storica dei Paesi fondatori riprendere al più presto l’iniziativa, senza lasciarsi ingannare dalla via delle cooperazioni rafforzate in questo e quel settore o politica dell’Unione, ma puntando a creare, in parallelo e pur preservando l’Unione, il primo nucleo di uno Stato federale europeo aperto poi a tutti i paesi che ne vorranno fare parte. Ed è responsabilità storica dei federalisti e del Movimento Federalista Europeo innanzi tutto scuotere dal torpore la classe politica e l’opinione pubblica europea, facendo chiarezza sulle soluzioni illusorie e indicando con coraggio l’unica via d’uscita.

 

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