E’ passato oltre un anno e mezzo da quando in Siria sono iniziate le prime manifestazioni e proteste contro il regime di Bashar al-Assad, eppure nonostante il tempo trascorso la soluzione della crisi sembra ancora lontana. Nonostante le defezioni, le fughe dei vertici militari e civili che decidono di passare dalla parte dell’opposizione al regime (Consiglio Nazionale Siriano) o di fuggire all’estero, non solo Assad non intende rinunciare al potere ma sembra essere disposto a difendersi con tutti i mezzi a disposizione. La dimostrazione di questa sua volontà la si ritrova nell’estate di sangue appena trascorsa.
Già in precedenza il regime non si era fatto scrupoli nel colpire pesantemente le città rivoltose (Dar’a, Homs e la stessa Damasco) facendo intervenire l’esercito, ma mai come questa estate l’intervento militare era stato così forte. Ad agosto è stata lanciata una larga offensiva contro la città ribelle di Aleppo, causando migliaia di morti e numerosi sfollati. Mentre a Damasco in alcuni quartieri è intervenuta l’aviazione, causando oltre 400 morti in un solo giorno. Finora, almeno secondo l’ONU sono circa 32000 le vittime del conflitto (di cui la metà civili), mentre il Consiglio nazionale siriano parla di oltre i 50000 morti. Dati ancora più preoccupanti sono quelli relativi agli sfollati; si calcola che siano circa 2 milioni mentre è in aumento il numero dei profughi che cercano di lasciare la Siria per dirigersi prevalentemente in Turchia e Giordania; ad ora sembrano ci siano tra le 150000 e le 200000 persone nei campi allestiti nei paesi confinanti per fronteggiare l’emergenza.
Mentre la guerra civile infuria la comunità internazionale non sembra riuscire a trovare il modo per poter porre fine alle violenze. L’ONU, sebbene abbia mandato numerosi osservatori in loco, non sembra disporre dei mezzi necessari per un’azione risolutiva, in particolare a causa dell’avversione di Russia e Cina verso qualsiasi intervento occidentale volto a far cadere il regime di Damasco; lo stallo è un’evidente dimostrazione della paura che questi due paesi provano di fronte all’ipotesi che la comunità internazionale appoggi gli insorti contro un governo in carica. Altro grande sostenitore di Assad, per ragioni geopolitiche, è l’Iran, che non si limita solo a qualche dichiarazione in favore del regime ma interviene direttamente nel conflitto fornendo armamenti e inviando addestratori e ufficiali in Siria (tra cui Qassem Soleiman, capo della Brigata Gerusalemme e responsabile della diffusione dell’ideologia khomeinista fuori dall’Iran).
Ma la situazione in Siria è ormai insostenibile, e l’isolamento di Assad sul piano internazionale è sempre maggiore. Nel quadro mediorientale la debolezza del regime siriano ha riaperto i giochi della leadership regionale. In primis è la Turchia il paese maggiormente in opposizione al regime; non è un caso infatti che il CNS si sia formato in esilio proprio in Turchia e che essa sia la meta di destinazione di molti dei vertici del regime che decidono di abbandonare Assad. La tensione tra i due paesi è sempre alta, alimentata anche da episodi come l’abbattimento di un aereo militare turco ad opera dell’esercito lealista. Anche la Lega Araba ha progressivamente condannato il regime, dapprima con le sanzioni economiche di novembre 2011 e infine con la dichiarazione del 24 luglio in cui la Lega auspica che Assad lasci il potere. L’Egitto, altro paese protagonista della primavera araba, tramite le parole del presidente Mursi prende una posizione netta affermando che “la nostra solidarietà con la lotta del popolo siriano contro un regime oppressivo che ha perso la sua legittimità è un dovere etico quanto una necessità strategica e politica”.
Sul piano internazionale, infine Stati Uniti, Francia e Gran Bretagna sono ormai decisamente schierati a sostegno dei ribelli, ma a causa dei veti di Russia e Cina non riescono ad ottenere le risoluzioni ONU necessarie per poter intervenire; ed un’azione priva della legittimità delle Nazioni Unite creerebbe un’ulteriore escalation della tensione internazionale visto il coinvolgimento dell’Iran, che non potrebbe accettare la sconfitta di perdere uno dei pochi paesi “amici”, tra l’altro in un’area strategica. E’ chiaro che qualsiasi forma di intervento dall’esterno, già di per sé molto complicata e delicata, non può venire dal solo Occidente, ma sarebbe necessario che fossero gli stessi paesi della Lega Araba ad impegnarsi in sostegno del CNS, mentre il ruolo dell’Occidente dovrebbe soprattutto essere volto alla risoluzione dell’emergenza umanitaria e all’appoggio nelle principali sedi diplomatiche.
Per concludere l’analisi sull’attuale situazione siriana e sulla drammatica escalation della tensione in Medio Oriente va fatta su un’ultima osservazione sulla grande assente sul piano delle relazioni internazionali; così come per quanto ha riguardato i paesi della primavera araba, la grande assente è stata, e lo è ancora oggi, una voce europea in grado di sostenere con maggiore forza la voglia di rinnovamento istituzionale dimostrata dai popoli dell’altra sponda del Mediterraneo e di sostenerla efficacemente nel percorso di costruzione della democrazia. Al di là delle dichiarazioni di Lady Ashton non esiste alcuna linea d’azione comune e i vari governi nazionali, sebbene all’unanimità condannino le violenze perpetuate dal regime nei confronto dei civili, seguono strade diverse. Attualmente Gran Bretagna e Francia hanno assunto posizioni più nette in favore dei ribelli, e proprio i cugini transalpini, sempre in prima linea quando mutano gli equilibri di potere nel sud del Mediterraneo, hanno recentemente dichiarato di voler riconoscere come “governo legittimo” il CNS, mentre il resto del continente rimane più defilato. E’ evidente che una posizione di due soli Stati, attaccati ad un’anacronistica posizione di privilegio nel Consiglio di Sicurezza ma sostanzialmente impotenti sul piano politico per contribuire fattivamente a trovare un nuovo assetto più equilibrato e pacifico in Medio Oriente, non è un contributo concreto alla crisi in corso. All’inizio dell’anno Hillary Clinton ha più volte dichiarato espressamente che gli USA non sarebbero stati accondiscendenti di fronte alle violenze delle truppe fedeli ad Assad, ma non si può, e soprattutto non possiamo, pretendere che siano sempre gli Stati Uniti a farsi carico della soluzione delle crisi internazionali, ancor di più quando esse avvengono alle porte d’Europa. La crisi siriana mette dunque in evidenza, ancora una volta, la debolezza dell’Europa sul piano delle relazioni internazionali, poiché incapace di adottare una politica estere unica, incapace di “spalleggiare” gli USA di fronte alla volontà di Russia e Cina di mantenere lo status quo, incapace di assumersi la responsabilità di aiutare i paesi arabi ad avviarsi verso forme democratiche in grado di garantire libertà e diritti fondamentali e forse in grado di gettare un ponte per il dialogo tra le due sponde del Mediterraneo.