Una decina di anni fa nessuno studioso di scienze politiche o esperto di relazioni internazionali avrebbe scommesso sul rapido ritorno della potenza russa. Gli anni Novanta lasciano in effetti un paese sfasciato e fragile, la superpotenza sconfitta e umiliata che, messe da parte le guerre stellari, deve fare i conti con una miseria dilagante e la dispersione del suo arsenale militare. E invece oggi la nuova Russia ha annunciato un piano di riarmo miliardario, ha realizzato il test per il nuovo missile intercontinentale, i più grandi architetti del mondo disegnano lo skyline della sue metropoli, mentre il suo Pil sta crescendo dell’8% annuo.

Il merito di questo grande balzo in avanti va attribuito ad una nuova classe dirigente fatta di tecnocrati che hanno saputo recepire elementi della cultura liberale, di funzionari statali integerrimi – spesso exufficiali del KGB e dell’esercito –, ma anche di affaristi senza scrupoli e di burocrati corrotti, che sono stati i veri beneficiari del crollo dell’impero sovietico e delle sfrenate privatizzazioni. A capo di questo nuovo esercito di ussari c’è l’ultimo zar: Vladimir Putin. E’ lui l’uomo dell’anno secondo la rivista Times. La grandezza di Putin non sta solo nell’essere riuscito a far fruttare enormemente le infinite risorse minerarie del paese, ma innanzitutto nell’aver rafforzato il potere del governo centrale, tra l’altro impedendo la secessione di alcune aree strategiche fondamentali come la Cecenia. In questo modo Putin ha fornito nuovamente a tutto il popolo una nuova visione della Russia in cui credere e la convinzione che i giorni dell’umiliazione e della miseria sono finiti. La nuova Russia che sta emergendo sullo scenario internazionale è un paese sicuro, dove l’esercito e la polizia pattugliano le strade e la gente non ha paura di uscire la sera. Il suo peso sulla scena internazionale cresce insieme con l’aumento del prezzo del gas, di cui è massima esportatrice, e della sua spesa bellica, che si è sestuplicata negli ultimi otto anni. Nonostante si ampli sempre di più il divario economico e sociale interno, i super ricchi magnati del gas sanno festeggiare insieme ai poveri impiegati statali quando le infinite schiere di carri armati sfilano ancora una volta sulla Piazza Rossa. Il consenso nei confronti della classe di governo, e di Putin in particolare, è quasi senza precedenti nella storia del paese. I russi non chiedono più democrazia e non appoggiano la fragile opposizione, composta soprattutto dai detentori dei privilegi economici e dai pochi liberali che il potere ha facilmente zittito. Le proteste occidentali per la debolezza democratica del paese sono vissute solo come un’ingerenza indebita e strumentale da parte di potenze ostili.

Tutto sommato è una Russia più aperta, ma potenzialmente altrettanto pericolosa del vecchio impero sovietico quella che si riaffaccia sulla scena internazionale. Se prima gli occidentali potevano contare sulla solidità e la prevedibilità dell’ideologia, ora devono fare i conti con la nuova e spregiudicata filosofia di Mosca che si orienta sulla base di un unico fine: la conquista di un sempre maggior potere. Messo da parte, insieme al comunismo, il progetto di costituire un modello per l’intera umanità, la nuova politica russa sta sintetizzando la fredda logica della ricerca spregiudicata del profitto con l’ immanente necessità di stabilità interna e le riscoperte ambizioni di politica di potenza.

Sono tendenze la cui evoluzione è difficile da interpretare, ma con cui sicuramente dovranno fare i conti gli europei, i quali non devono dimenticare che la Russia si rafforza là dove l’Europa si sta indebolendo. Il crollo del muro di Berlino avrebbe dovuto essere un’occasione storica per ultimare il processo di integrazione europea e creare finalmente una nuova grande potenza sul continente, questa volta ad ovest invece che ad est. Gli europei invece, nella più assoluta irresponsabilità e senza tener conto degli effetti che l’assenza di un potere europeo a livello regionale e globale avrebbe avuto sull’evoluzione della Russia, hanno preferito posticipare il momento della decisione sperando che gli Usa avrebbero continuato a garantire quella strana condizione di benessere privo di responsabilità politiche di cui il vecchio continente ha goduto per cinquant’anni. Essi hanno lasciato nelle mani degli americani la gestione dei rapporti con il nuovo Stato russo, limitando le proprie relazioni autonome ad elementi poco più che simbolici. Essi hanno così, di fatto, appoggiato il tentativo statunitense di minare la rinascita di un potere russo sia con azioni dirette allo sgretolamento della sua area di influenza (come in Ucraina e in Georgia), sia con l’allargamento della Nato e persino inserendo in questa logica l’allargamento dell’Ue. In questo modo, paradossalmente, pur avendo raddoppiato la propria estensione ad est, l’Unione europea di oggi è perfino più debole della Comunità europea che firmava con l’URSS gli accordi di Helsinki. L’Europa di vent’anni fa infatti, pur essendo il vaso di coccio tra i due vasi di ferro, era abbastanza salda al proprio interno da resistere ai colpi che venivano da est e gli Usa erano abbastanza forti da proteggerla. Oggi l’Europa è molto più divisa e fragile che in passato. Se prima la maggior parte dei paesi membri aveva chiara come meta finale del processo di integrazione l’unità politica, oggi prevale purtroppo la logica opportunista di cercare di trarre il massimo vantaggio nazionale senza nessuna visione comune del futuro. Considerato infine il forte indebolimento degli Stati Uniti, il vaso europeo non si può neanche più dire ormai di coccio, ma di paraffina, pronto a sciogliersi lentamente quanto più si rafforza la fiamma della potenza russa, alimentata dalle sue infinite riserve di gas e petrolio.

Di questo Putin e il suo nuovo delfino Medvedev sono ben consapevoli. Non sono pochi i consiglieri del Presidente che vedono nella recenti difficoltà degli USA in Iraq e in Afghanistan i segni di un imminente crollo e profetizzano la fine della superpotenza americana. La Russia pensa già ad uno scacchiere internazionale postmoderno, in cui l’Unione europea si sfalderà, gli USA vedranno ridimensionata la loro potenza al solo continente americano e il centro del mondo si sposterà definitivamente in Asia con due poli: la Russia e la Cina. Le nuove intese russocinesi sul terrorismo e sul Darfur, i loro accordi commerciali sull’alta tecnologia e il legname, la sospensione da parte russa del Trattato sulle Forze Armate Convenzionali in Europa, i rapporti sotterranei di Mosca con Teheran si spiegano proprio in questa nuova logica.

E’ una situazione allarmante di cui gli europei non avvertono ancora la gravità. C’è chi come la Gran Bretagna spera che l’allargamento della Nato ad est, in sintonia con l’espansione del mercato europeo, sia il modo migliore per contenere la Russia. La realtà sembra invece dimostrare che difficilmente la vecchia Alleanza atlantica guidata da un’America stanca e in difficoltà potrà ancora fare paura al Cremlino nel lungo periodo. Il fatto è che manca un vero polo capace di controbilanciare l’ascesa russa – oltre che quella cinese – sullo scenario mondiale. Gli americani non riescono da soli a reggere il confronto. La soluzione potrebbe essere solo un’Europa unita, capace di assumersi finalmente la responsabilità del proprio destino e di compiere le scelte difficili, ma necessarie, per garantirsi un solido futuro. Se tutto questo non avverrà in tempi brevi i litigiosi politici europei vedranno compiersi l’irrimediabile declino del loro continente senza ancora riuscire a capire come abbia fatto la “pigra e antidemocratica” Russia a gabbarli ancora una volta.

 

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