Si tratta della Scheda n. 4 della Campagna per lo Stato federale europeo

“Il dibattito sul riscaldamento del pianeta è finito” ha sentenziato recentemente una tra le più prestigiose riviste scientifiche (“A Climate Repair Manual”, Scientific American, Settembre 2006). Gli attuali livelli di concentrazione dell’ anidride carbonica nell’atmosfera sono i più alti di quelli registrati negli ultimi 650 mila anni e sembrano destinati ad aumentare. Nessun climatologo è in grado di prevedere cosa accadrà in ogni singola regione del mondo nei prossimi decenni a seguito del rilascio nell’atmosfera in soli due secoli dell’anidride carbonica immagazzinata in milioni d’anni nel sottosuolo, ma la comunità scientifica ha ormai raggiunto un consenso nel ritenere: a) che i dati storici climatologici e i rilevamenti attuali hanno messo in luce una relazione tra l’aumento dei gas ad effetto serra e i cambiamenti dei cicli climatici e b) che senza drastiche, ma al momento non prevedibili, inversioni di tendenza nell’aumento dell’immissione di questi gas nell’atmosfera, bisogna prepararsi a profondi cambiamenti nel clima e nelle correnti oceaniche su scala globale nei prossimi decenni. Se il trend verso il surriscaldamento del pianeta non verrà invertito entro la metà del secolo, cioè entro un periodo in cui molti di coloro i quali vivono oggi saranno ancora in vita, la temperatura media potrebbe aumentare di 25 gradi centigradi: un aumento significativo quando si considera che il pianeta è oggi più caldo di soli 5 gradi centigradi rispetto all’ultima era glaciale.

Le conseguenze più probabili riguarderebbero: l’aumento dei fenomeni atmosferici estremi, con il conseguente aggravamento del problema della desertificazione in alcune regioni e delle alluvioni in altre, e danni per le produzioni agricole; il ritorno a climi glaciali in alcune aree e il surriscaldamento in altre; l’innalzamento dei livelli delle acque, con gravi conseguenze per paesi come il Bangladesh, ma anche per megalopoli costiere come Londra, Shanghai e New York, per citarne solo alcune. La rapidità e il susseguirsi dei cambiamenti climatici metterebbero a dura prova la capacità di molti Stati di far fronte a inevitabili crisi economiche e a migrazioni di popolazioni verso le regioni con un clima ancora temperato.

Diversi rapporti, compreso quello commissionato dal governo britannico a Sir Nicholas Stern, hanno messo in luce le conseguenze del cambiamento climatico in termini di rallentamento dello sviluppo economico e diminuzione della sicurezza. Grazie anche a campagne di denuncia del rischio che incombe sul pianeta, condotte per esempio da leader politici come l’ex vice-presidente degli USA Al Gore e da esperti come James Hansen, queste problematiche vengono ormai ampiamente discusse. Il rapporto Stern in particolare ha calcolato che tali conseguenze potrebbero essere paragonabili ai danni “provocati dalle due guerre mondiali e dalla grande depressione della prima metà del XX secolo”. A differenza delle crisi del secolo scorso, tuttavia, è difficile stabilire quanto a lungo si protrarrebbero, se decenni o addirittura secoli. E’ certo che, quanto più si ritarda ad intervenire, tanto più gli scenari sono destinati a peggiorare: una ipotesi conservativa fatta dal rapporto Stern spiega che, se si rinuncia a spendere subito l’equivalente dell’1% del prodotto interno lordo mondiale per generalizzare l’introduzione delle tecnologie già note atte a ridurre le emissioni nocive, si potrebbe avere come conseguenza una diminuzione del 20% del prodotto interno lordo su scala mondiale. Nessun governo dovrebbe avere dubbi sulla necessità di agire subito per scongiurare una simile prospettiva. Ma quale autorità potrebbe pianificare e coordinare una simile politica globale di risanamento ecologico del pianeta?

Chi governa la crisi ambientale?

Gli strumenti per guadagnare tempo in vista della introduzione e diffusione di nuove tecnologie e per allontanare il momento in cui la soglia di pericolo della concentrazione di anidride carbonica nell’atmosfera raggiunga livelli incontrollabili sono al momento applicati in modo scoordinato e casuale su base nazionale. Si tratta delle politiche di regolamentazione del mercato dei permessi di inquinare, dell’introduzione della carbon tax, dei provvedimenti che favoriscono il riassorbimento dell’anidride carbonica, dell’accelerazione nell’introduzione di nuove tecnologie per i mezzi di trasporto o della diversificazione delle fonti energetiche per la produzione di energia elettrica. Per risultare efficaci, anche semplicemente ai fini di guadagnar tempo, occorrerebbe che queste misure fossero il frutto di un’azione coerente e pianificata, di cui potrebbe farsi carico solo un vero e proprio governo mondiale. Orbene un governo mondiale oggi non solo non esiste, ma è impensabile nell’immediato futuro. E’ del resto illusorio pensare di raggiungere dei risultati significativi nel quadro di conferenze internazionali con i rappresentanti di quasi duecento Stati. Se non si attiva al più presto una stretta collaborazione tra i soggetti che maggiormente contribuiscono all’aumento della concentrazione di gas ad effetto serra – sono una ventina i paesi responsabili dell’80% delle emissioni, ma se gli europei fossero davvero uniti i soggetti che dovrebbero concordare una politica comune potrebbero scendere a meno di dieci –, si va incontro ad una catastrofe. In questa ottica l’Unione europea ha gravi responsabilità: non solo non costituisce un vero interlocutore in campo internazionale perché le sue reali possibilità di azione sono assolutamente insufficienti, ma rallenta, con lo spettacolo della divisione tra i suoi paesi, lo sviluppo di analoghi processi di unificazione politica in altri continenti. La mancata (per ora non prevista) nascita dello Stato federale europeo, con i profondi cambiamenti negli equilibri di potere che questa comporterebbe, rende impensabile in questa fase l’accelerazione della cooperazione internazionale con la quale potrebbero essere affrontate le questioni vitali indispensabili per cercare di mitigare gli effetti del cambiamento climatico o anche solo per adattarvisi.

Agire secondo giustizia

Sarà certamente impossibile ottenere il consenso di centinaia di milioni di uomini e donne che vivono in Asia e in Africa – e che tuttora aspirano a raggiungere un benessere almeno paragonabile a quello dei paesi occidentali – a compiere rinunce e sacrifici che finirebbero per favorire ulteriormente soprattutto le generazioni attuali e future di popoli che sono stati già più fortunati di loro. Gli USA e gran parte dei paesi dell’Unione europea non possono mettersi alla guida di alcun processo di salvaguardia del clima del pianeta senza riconoscere questa ingiustizia e senza varare delle credibili politiche di austerità al loro interno per promuovere il trasferimento di risorse e tecnologie in primo luogo verso l’Asia e l’Africa.

Mantenere la pace

Un patto di condivisione degli oneri per salvare il pianeta concepito ed elaborato e per entrare in vigore in breve tempo, dovrebbe essere inquadrato in un piano di transizione per creare una federazione mondiale, il cui il primo passo dovrebbe essere costituito dalla formazione di un governo provvisorio fondato sulla cooperazione fra i principali poli di potere mondiali per mantenere la pace. Finché non si riduce al minimo il rischio di una nuova corsa al riarmo, della proliferazione delle armi di sterminio e di conflitti regionali, non si elimina la principale fonte di spreco e di distruzione di risorse, e quindi di potenziale aggravamento della crisi ecologica: la guerra e la sua preparazione.

Fare lo Stato federale europeo

L’Unione europea in quanto tale non è, e non potrà diventare nel prevedibile futuro, un attore attivo di questi processi. Essa infatti non ha, e non può avere, i poteri necessari per promuovere all’interno dei suoi confini e nei confronti dei principali interlocutori internazionali quelle politiche fiscali, quegli accordi commerciali e industriali, quegli interventi militari che restano, anche nell’epoca della globalizzazione, una prerogativa dell’azione coerente e consapevole degli Stati di dimensioni continentali e dei loro cittadini e non dei rappresentanti di una organizzazione regionale di Stati indipendenti, quale continua ad essere, nonostante i successi nel campo dell’integrazione economica e monetaria, l’Unione europea. E’ sotto gli occhi di tutti l’impotenza degli europei nel campo della politica energetica e della politica estera. L’assenza di un polo di potere europeo significa dunque che viene a mancare il catalizzatore di accordi più avanzati con e fra i tre interlocutori essenziali in campo ecologico, gli USA, la Cina e l’India dalle cui politiche dipende gran parte del futuro del nostro pianeta.

Sugli europei grava quindi una grande responsabilità sul terreno delle crisi climatiche che si annunciano. La creazione di un vero Stato federale europeo si rivela infatti il nodo cruciale da sciogliere per rendere possibile un’evoluzione positiva del quadro internazionale. Questa responsabilità dovrebbe subito manifestarsi nella volontà politica di creare un primo embrione di questo Stato europeo almeno tra alcuni paesi, sostanzialmente i fondatori, a partire dalla Francia e dalla Germania. Proprio questi paesi dovrebbero infatti aver sufficiente memoria storica per ricordare la gravità delle conseguenze cui sono andati incontro ogni qualvolta hanno ignorato il monito di Machiavelli sulla necessità di esercitare per tempo la virtù: “Perché el nostro libero arbitrio non sia spento, iudico potere essere vero che la fortuna sia arbitra della metà delle azioni nostre, ma che etiam lei ne lasci governare l’altra metà, o presso, a noi. Et assomiglio quella a uno di questi fiumi rovinosi, che, quando s’adirano, allagano e’ piani, ruinano li arberi e li edifizii, lievono da questa parte terreno, pongono da quell’altra: ciascuno fugge loro dinanzi, ognuno cede allo impeto loro, sanza potervi in alcuna parte obstare. E, benché sieno cosí fatti, non resta però che li uomini, quando sono tempi quieti, non vi potessino fare provvedimenti, e con ripari et argini, in modo che, crescendo poi, o andrebbono per uno canale, o l’impeto loro non sarebbe né si licenzioso né si dannoso. Similmente interviene della fortuna: la quale dimonstra la sua potenzia dove non è ordinata virtù a resisterle, e quivi volta li sua impeti, dove la sa che non sono fatti li argini e li ripari a tenerla” (Il principe, XXV).

Grazie alla scienza, se non si tratta di un clamoroso abbaglio, sappiamo che i tempi quieti stanno passando ed è perciò sempre più urgente costruire argini e ripari adeguati per far fronte alle nuove sfide ambientali.

 

 

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