L’inaspettata vittoria di Donald Trump alle elezioni presidenziali americane apre un nuovo capitolo nelle relazioni americane con l’Europa.

Il fenomeno elettorale Trump è stato così travolgente grazie anche al seducente messaggio che è stato fatto passare in mesi di martellante campagna elettorale: il declino economico, sociale e politico che gli Stati Uniti vivono si fermerà se il governo americano si occuperà più degli interessi americani ritirandosi dalle proprie responsabilità internazionali. Il messaggio di Trump, semplice ed efficace, è stato diretto a quella fascia di elettorato che nei grandi cambiamenti provocati dalla globalizzazione sono risultati perdenti e che poco a poco hanno ingrossato le file degli sfiduciati contro le istituzioni.

Molti commentatori non credono che le relazioni internazionali cambieranno in modo così radicale sia per l’irrealizzabilità pratica e logica di alcune proposte, sia grazie ai limiti posti alla Casa Bianca dal noto sistema di  checks-and-balances delle istituzioni americane. Tuttavia, come segnalato dal Washington Post (Karen De Young, “How the Obama White House runs foreign policy”, 4 agosto 2015) la tendenza della Casa Bianca ad intervenire in materia di politica estera soprattutto a seguito degli attacchi terroristici dell’11/9 è stata quella di accentrare su di sé sempre più decisioni, bypassando il Congresso americano, paralizzato da veti e dall’indecisione dei partiti.

Nonostante la totale assenza di un programma in materia di politica estera e l’abbondanza di promesse (spesso in contraddizione tra loro), una serie di dichiarazioni più volte ripetute lasciano supporre quale sia la “visione” di Trump e che si può riassumere in due slogan: America First e Americanism, not Globalism.

America First. Uno dei punti fermi di questa visione è che gli Stati Uniti, per tornare a essere grandi, debbono rinegoziare le costose e “storiche” alleanze multilaterali di difesa (NATO ma anche i vari trattati con altri Paesi come Giappone e Corea del Sud) e rendere più equilibrati gli “oneri”.  In realtà questa insofferenza americana per il fatto di dover sostenere gli oneri della difesa del mondo occidentale, soprattutto da quando non esiste più un “Nemico” contro il quale serrare i ranghi, era stata già espressa dalla presidenza Obama, ma nulla era stato ottenuto. Trump non solo ha dichiarato che renderà effettivi il pagamento degli “oneri della difesa” agli alleati (il 2% del PIL, che per il nostro Paese significa circa 26 miliardi di euro) ma anche di espellere quanti non rispettino tali obblighi. Proprio questa “tendenza” nei discorsi di Trump lascia supporre che i Paesi NATO (tra i quali quasi tutti i membri dell’UE) si troveranno presto a perdere la certezza che l’ombrello nucleare a protezione dell’Europa sia garantito sempre e comunque.

Nella visione di Trump, come afferma in un Policy Memo il think thank European Council on Foreign Relations (ECFR), il baricentro della politica estera americana non si deve più basare sulle alleanze multilaterali e a blocchi bensì nelle relazioni tra le sole grandi potenze. Inoltre un altro elemento fondamentale – e per certi versi rivoluzionario nella storia della politica estera americana – è che sia preferibile avere come controparte Paesi autoritari (authoritarian strongmen) garanti di ordine e stabilità nei loro Paesi (interni) o nelle rispettive aree d’influenza (esterne).

Americanism Not Globalism.  Il secondo pilastro della visione politica di Trump è in materia di politica economica. Durante la campagna elettorale gli accordi di libero commercio multilaterali sono stati accusati di impoverire il settore manifatturiero e agricolo degli Stati Uniti e con esse la classe lavoratrice a favore delle grandi multinazionali in grado tra l’altro di sfuggire per la maggior parte alla tassazione e di delocalizzare centri produttivi nei Paesi più convenienti.

Le affermazioni di Trump sono suffragate da ricerche che affermano come all’aumento della disoccupazione e del precariato abbiano corrisposto al tempo stesso un aumento del potere e della ricchezza delle grandi società; inoltre queste analisi dicono anche che i Paesi con cui sono stati stipulati questi accordi hanno avuto una crescita complessivamente superiore. La risposta di Trump è di uscire da questi accordi – e dal clima di fiducia che questi accordi creano tra i partner perché tutti vi entrano su un piede di parità – per creare un sistema di trattati bilaterali dove l’obiettivo è ottenere il massimo vantaggio possibile con il singolo Paese. Inoltre questa retorica ha attecchito proprio nell’elettorato del Partito repubblicano notoriamente a favore del libero commercio: secondo un sondaggio del Pew Research Center del 5 maggio 2016, nel 2014 il 55% dei votanti repubblicani ritenevano una cosa positiva gli accordi di libero scambio, nel volgere di due anni la percentuale si attesta al solo 32%.

Le accuse più pesanti sono state rivolte al NAFTA – da cui si minaccia proprio di escludere il Messico –, al TTP – l’accordo di libero scambio con tutti i Paesi che si affacciano sul Pacifico ad eccezione della Cina: da segnalare come questi Paesi già lavorano ad una nuova intesa che abbia come baricentro con la Cina –, e al TTIP – il famigerato accordo con l’UE, vittima sacrificale per eccellenza.

Se venissero attuate integralmente queste promesse elettorali, si correrebbe il rischio di una recessione economica mondiale a causa dell’ulteriore restrizione dei commerci mondiali ed il ritorno ad un’epoca di protezionismo economico generatore di pericolose ulteriori crisi politiche internazionali.

Il ruolo dell’Europa. Nella visione politica di Trump, l’Europa intesa come un tutt’uno non esiste e pertanto non vi è alcun interesse da parte sua a promuoverne una maggior integrazione, come aveva richiesto in più occasioni Obama. Per Trump, un’Europa divisa rappresenta solo un’occasione per strappare maggiori concessioni economiche ed il pagamento degli “oneri della difesa” a ciascun Paese. Segno anticipatore di questa tendenza è il favore espresso da Trump per la Brexit e l’appoggio subito promesso al Regno Unito una volta vinto il Leave. Inoltre è significativo che i primi leader ad essere stati chiamati dopo le elezioni siano stati proprio quelli dei singoli Paesi europei mentre il presidente della Commissione è stato ignorato.

Il vero pericolo che corre l’Europa è che i singoli Paesi facciano proprio il “gioco di Trump”: se nei vari Stati membri risulteranno vincenti le forze della “disgregazione” il cui unico (vero) programma politico è quello di riappropriarsi di poteri nazionali ormai persi a discapito delle istituzioni europee, si correrebbe il rischio che, una volta al potere, queste forze politiche si rivolgano alla potenza di turno per chiederne l’appoggio, trasformando l’Europa in una terra di contesa tra gli Stati Uniti e la Russia.

C’è bisogno di coraggio politico e visione per opporsi e resistere ad ogni tentativo esterno che cerca di dividere quanto faticosamente costruito in 60 anni e più di unità. Lo stesso coraggio che ha mostrato il Presidente della Commissione dell’UE, Jean Claude Junker, nello stesso giorno in cui Trump è stato eletto (“Bisognerà che gli spieghiamo in cosa consiste l'Europa e come funziona”) e che ha di fatto accelerato l’assunzione di decisioni precise per la formazione di un’autonoma forza militare europea nell’ultimo Consiglio degli Affari Esteri dell’UE (14 novembre 2016), fortemente voluto dal suo Presidente Federica Mogherini. Questo scatto politico si deve manifestare ora più che mai in quei Paesi determinanti per la creazione di un’Europa unita, solidale e federale, quali Italia, Francia e Germania che sono decisivi per proporre e portare avanti qualsiasi progetto di rilancio dell’integrazione politica tra i Paesi europei, anche fuori dalla prospettiva dei Trattati esistenti. Mai come oggi è vera l’esortazione: federazione o morte!

 

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