L’Europa è sempre più nell’occhio del ciclone. Ai drammi che derivano dal protrarsi dell’occupazione e della guerra in Irak, dall’incancrenirsi del conflitto israelopalestinese, dalle crisi striscianti in Pakistan, Arabia Saudita, Balcani, ecc. e dal terrorismo fondamentalista che ora colpisce direttamente l’Europa, si aggiungono le vicende dell’economia europea (recessione, apprezzamento dell’euro, patto di stabilità, ecc.). Esse evidenziano una nuova dimensione della crisi in cui versano l’Unione e gli Stati membri e sottolineano l’incapacità dei governi e delle classi politiche (nazionali e “comunitarie”) di farvi fronte con strumenti che siano all’altezza delle sfide.

Scrive Nicolas Baverez (Corriere della Sera, 2 aprile 2004): “E’ incontestabile che l’UE attraversi la crisi più grave della sua storia. L’Europa è l’anello debole della ripresa mondiale, con una crescita limitata allo 0,4% nel 2003 contro il 3,2% negli Stati Uniti, 2,7% in Giappone, 6% in Russia e in India, 9,2% in Cina. Parallelamente le finanze pubbliche hanno subito un ulteriore deterioramento, provocando l’implosione del patto di stabilità”. Che i governi dell’Unione si preparino a cancellare (pudicamente si dice “modificare”) le regole di Maastricht risulta evidente dalle parole, tra gli altri, di autorevoli esponenti del governo italiano (Tremonti: “i vincoli del patto di stabilità ... non sono più adeguati quando i Paesi che rappresentano l’85% del reddito europeo sono già oltre ‘in modo strutturale’ la soglia del 3% nel rapporto deficit-pil” Corriere della Sera, 4 aprile 2004). In questa direzione si muove il “direttorio” (i governi francese, tedesco e britannico) che punta a svuotare ulteriormente le già deboli istituzioni comunitarie ed a governare l’Unione a Venticinque con gli strumenti del “potere” nazionale – quello per il quale, per altro, rispondono ai rispettivi elettorati. E non è un caso che lo stesso Trattato cosiddetto “costituzionale”, che ci si appresta ad approvare, preveda – novello Piano Fouchet – un sostanziale rafforzamento dell’impianto “confederale” dell’Unione, tramite l’aumento dei poteri del Consiglio per tutte le questioni che contano (fiscalità e governo dell’economia, politica estera e di difesa, lotta al terrorismo, ecc.).

E c’è chi prevede quale sarà l’esito di questa progressiva “confederalizzazione” di un’Unione, sempre più diluita, che non ha saputo affrontare, né alla Convenzione, né al Parlamento europeo, né altrove, il tema della statualità. Sarà la sua disgregazione. Jim Rogers, cofondatore assieme a Georges Soros del Quantum Fund, intervistato da Le Figaro (16 marzo 2004) afferma di ritenere che l’euro non possa sopravvivere per più di una decina d’anni. Richiesto di quale valuta possa approfittare della attuale debolezza del dollaro, risponde: “lo yuan cinese, pur non essendo per ora convertibile, è la sola valuta che parrebbe in grado di rimpiazzare un giorno il dollaro”; e aggiunge: “Non credo alla sopravvivenza dell’euro nell’arco di una decina d’anni”. Evidentemente Rogers ragiona in termini politici e tiene in debito conto che dietro lo yuan c’è uno “Stato” (la Cina), laddove dietro l’euro c’è una Unione precaria, squassata da forze centrifughe, tanto più potenti oggi in un quadro (25, presto 28/30 paesi) ove non vi è più una maggioranza di pubblica opinione (e di Stati) disponibili per l’obiettivo dell’unità politica.

Ancora più cupi, se possibile, sono i segnali che vengono dal settore della difesa. Sempre il 16 marzo 2004, il Financial Times pubblicava una nota editoriale dal titolo, solo in apparenza fantascientifico: “I carri armati nordamericani invadono l’Europa” (US Tanks storm into Europe). L’articolo contiene un breve ma dettagliato rendiconto dello stato dell’industria europea degli armamenti, dopo la recente offerta d’acquisto della Società britannica Alvis (produttrice dei carri armati Challenger) da parte della nordamericana General Dynamics, che già aveva acquisito altre importanti aziende europee di armamenti. “Gli Stati Uniti hanno distrutto (blasted away) ogni residua speranza di dar vita ad un’industria degli armamenti paneuropea”, così esordisce la nota del Financial Times e prosegue: “General Dynamics è destinata a divenire il grande ‘consolidatore’ del settore europeo degli armamenti”, per concludere: “... senza neppure rendersene conto, l’Europa sta capitolando di fronte alla potenza di fuoco nordamericana”. Nessun dubbio che “le residue speranze”, affossate dalle iniziative di General Dynamics (supportate dalle commesse del Pentagono), siano quelle degli strateghi della Convenzione che sognavano di dare un ruolo (una “voce sola”) all’Unione nella gestione degli affari mondiali, senza affrontare la questione dello Stato e della sovranità, ma con un Ministro europeo degli Affari Esteri (che “coordina” i Ministri degli Esteri nazionali?) e con le cooperazioni rafforzate, o strutturate che siano, nel settore della difesa, da realizzarsi forse nel 2008 o nel 2012.

Ma chiediamoci, quanto tempo ha l’Europa? Di quanti anni disponiamo per evitare la dissoluzione dell’euro, per conservare l’acquis communautaire, in una parola, per salvare l’Unione? Dieci anni, come sembra suggerire Rogers, o molti meno, come postula l’articolo del Financial Times? Difficile dirlo, di fronte all’aggravarsi delle crisi. Di certo non disponiamo di un tempo “infinito”: quello dei piccoli passi, delle Convenzioni che producono pseudo-costituzioni, delle cooperazioni strutturate, ecc., che – nelle parole dei governi e dei loro corifei “europeisti” – dovrebbero assicurarci, non solo il “consolidamento” dell’Unione, ma anche il suo passaggio indolore e progressivo all’unità politica.

Appare invece chiaro che, ancorati nel quadro dell’Unione – ove le forze confederaliste e le spinte centrifughe sono ormai maggioritarie – non solo non si avanza verso l’unità politica, ma si regredisce verso il suo disfacimento. Chi predica di voler salvare, di non voler “rompere”, il quadro dell’Unione, prepara in realtà il suo affossamento. Né deve stupire che queste siano le scelte dei governi (e delle classi politiche nazionali) che, stretti nella morsa della contraddizione tra il dover “creare” strumenti efficaci a livello europeo ed il non voler rinunciare alla sovranità nazionale, cercano – come già ricordava Altiero Spinelli nel settembre del 1957 (La beffa del Mercato Comune) – l’impossibile quadratura del circolo, inventando formule che diano l’impressione di progredire sulla via dell’unità, senza che si intacchi il potere reale degli Stati.

Che fare dunque? L’unica prospettiva che ha l’Europa – e che solo i federalisti possono preparare e tentare di portare a maturazione, con le armi della ragione e della verità – è che in questo gioco di brinkmanship (del prolungare l’agonia degli Stati, facendo finta di fare l’Europa), una leadership “occasionale ed illuminata” si renda conto che, giunti sull’orlo del baratro, non ci sono più margini di manovra e scelte dilatorie: per “salvarsi” non resta che compiere il “salto”, fondando lo Stato federale. Per altro, che sia nell’ambito dei “Paesi fondatori” che si possa trovare questa leadership occasionale ed illuminata non è più discutibile. E’ solo in questi Paesi che esistono, sia la disponibilità della pubblica opinione ad accettare il trasferimento di sovranità al livello europeo, sia un minimo grado di consapevolezza della necessità di perseguire l’obiettivo dell’unità politica, anche da parte di taluni settori delle classi politiche e di governo. E non è certo un caso che il quadro dei Sei venga sempre più spesso evocato anche da politici ed opinionisti come quello sufficientemente omogeneo per far progredire il processo, sia pure con le formule inadeguate e fumose dei “piccoli passi” e delle cosiddette “cooperazioni”. Qualcuno (Barnier, Balladour, Biancheri) ha anche evocato, sia pur confusamente, l’idea del “nucleo federale”, anche se nessuno è arrivato finora alle conclusioni ultime: occorre fondare lo “Stato europeo” ed un’iniziativa in questo senso può partire solo dall’ambito dei Fondatori.

D’altronde questo è il nostro compito, il compito dei federalisti. Come al tempo della lotta per la moneta unica, si tratta di dire la verità e di smascherare le “false soluzioni”, che allora si chiamavano serpente monetario, moneta parallela, ecc. e che oggi si presentano con l’aspetto accattivante delle Convenzioni, delle pseudo-costituzioni, dell’apparente coinvolgimento di istituzioni democratiche ed associazioni “non governative” – chiamate in realtà ad avallare le scelte dilatorie e minimaliste dei governi.

Al contrario, a noi spetta mettere in stato di accusa i governi (e le classi politiche) dei Paesi fondatori, svelando le menzogne di una “politica europea” che spinge l’Europa alla deriva. Spetta a noi costituire, attorno all’obiettivo dello Stato federale europeo e con le uniche forze di cui disponiamo, quelle della verità e della ragione, il “fronte” ove far convergere tutte le forze vive e reali dell’europeismo e del federalismo.

Dobbiamo farlo, anche a rischio di rompere il paralizzante e sclerotico quadro dell’Unione, perché solo così si può salvare anche l’Unione.

 

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