Con la firma solenne, il 29 ottobre scorso, del Trattato che adotta una costituzione per l’Europa sono state sollevate alcune questioni cruciali che non possono essere lasciate senza risposta. Nel celebrare l’avvenimento, pur essendo costretti a mettere al tempo stesso in luce i limiti del Trattato che veniva sottoscritto, molti osservatori hanno voluto evidenziare come l’importanza del nuovo testo risiedesse proprio nell’utilizzo della parola “costituzione”. Questo testo infatti, si sostiene, pur non dando all’Unione i poteri politici e la forza che le mancano, tanto che (come scriveva Padoa-Schioppa sul Corriere della Sera) “se anche fosse stato in vigore non avrebbe impedito agli europei , litigiosi e ininfluenti, di battere opposte strade nella crisi irachena”, costituisce comunque “una scelta verbale che definisce, senza ritorno, l’agenda europea degli anni a venire”.

Nessuno però si è posto il problema di specificare quale debba essere questa agenda. Tutti si sono semplicemente limitati ad osservare che questo “traguardo storico” serviva proprio ad aprire la marcia faticosa verso un ordine politico che avrebbe fatto risorgere l’Europa quale soggetto della storia del mondo.

Ora, il punto è proprio questo: quale dovrebbe essere questo “ordine politico”verso cui la costituzione apre il cammino, quando, per citare il Ministro Frattini “una larga maggioranza della gente ha ormai compreso che questa costituzione non crea un Superstato europeo né un’Europa federale”? Certo non un ordine federale, perché è difficile sostenere che un Trattato tenacemente voluto dalla Gran Bretagna per sancire il principio che l’Unione europea ha come base indissolubile della legittimità politica gli Stati-nazione, possa essere il cavallo di Troia per far passare il federalismo in Europa, al di là degli omaggi verbali all’idea di Europa che chi vince concede volentieri.

Ma se non si tratta di un ordine federale quali altre alternative ha di fronte a sé l’Unione nel firmare la “costituzione”? Bisognerebbe dirlo senza ambiguità: un ordine fondato non sull’unificazione ma sulla cooperazione tra Stati sovrani. Una cooperazione peraltro estremamente inefficace e macchinosa, come si dimostra quotidianamente anche questo dato di fatto non andrebbe così facilmente dimenticato nella retorica ufficiale – ma che rimane l’unica opzione per questa Unione che non vuole diventare un soggetto politico, né tanto meno uno Stato (quasi una parolaccia riferita all’Europa, ormai, perché vuol dire sovranità europea, popolo europeo, legittimità vera delle istituzioni, capacità reale di agire nel nome di un interesse europeo. Chi non vuole superare le sovranità nazionali è invece ben contento di esorcizzare queste parole usando la retorica per fingere una democrazia europea che non esiste nella realtà). Come possa l’Europa, in questo modo, diventare un “soggetto della storia del mondo”, sinceramente è difficile capirlo.

Il fatto che la firma del Trattato costituzionale sia avvenuta a Roma come quella dei Trattati di Roma nel ’57 ha spinto molti politici e molti commentatori a paragonare i due avvenimenti. La retorica sulla nascita dell’Europa politica dopo quella dell’integrazione economica ha trionfato quasi unanimemente in Italia. Ma, il parallelo da stabilire tra i due avvenimenti era forse un altro, e doveva servire per ricordare che oggi come allora l’Europa ha scelto di non realizzare l’unità politica. Nel ‘57 ci fu chi denunciò il tradimento dei governi che invece di fare la Federazione sceglievano di incamminarsi lungo il processo di integrazione economica, allontanando l’obiettivo federale e rendendolo molto più difficile. Fu Spinelli a denunciare in quell’occasione la “beffa del Mercato comune”, e i fatti gli stanno dando ragione. Oggi la Federazione europea è un traguardo molto più difficile da raggiungere di quanto non lo fosse nella metà degli anni ’50, quando era condiviso da tutti i sei paesi e la tensione morale e politica era fortissima. Oggi nell’Unione, e la nuova “costituzione” europea ne è una conferma, la maggioranza dei membri è contraria all’idea stessa degli Stati Uniti d’Europa. E chi un tempo era favorevole a questo obiettivo inizia a pensare che non è più necessario, proprio per il fatto che è stato possibile avere in Europa prosperità e pace senza unità politica. Agli euro-beati non importa quanto questi risultati siano precari e non importa il fatto che l’Europa assista impotente allo sfacelo internazionale, sperando di non esserne mai travolta. Non importa se il nostro continente sta smantellando il suo sistema di sicurezza sociale e se sta diventando un’area periferica dal punto di vista culturale, scientifico e tecnologico. La retorica dei lenti ma immancabili progressi del processo europeo trionfa, nell’illusione che gli europei abbiano diritto toutcourt ad un posto nella storia del mondo in omaggio alla grandezza del loro passato e della loro tradizione culturale.

Forse varrebbe la pena di provare a riflettere, come sembra si stia iniziando faticosamente a fare in Francia, non tanto sulla retorica della firma solenne ad una costituzione europea che non è una costituzione, quanto sul futuro reale dell’Europa. Nei paesi che hanno avviato il processo con la CECA si crede ancora nell’obiettivo della Federazione europea che Schuman evocava nel’51? Se la riposta è NO, allora va benissimo la celebrazione di questo Trattato che si limita a regolare la cooperazione tra Stati sovrani. Se invece la risposta è SI’, allora bisogna denunciare apertamente le ambiguità e le contraddizioni e battersi per realizzare con chi è d’accordo lo Stato federale europeo, riprendendo il disegno dell’Europa a cerchi concentrici. La realtà è che l’Unione europea non può più essere riformata: essa può solo essere rifondata partendo dalla volontà di realizzare l’obiettivo federale.

 

Informazioni aggiuntive