Le Monde del 28 maggio scorso ha pubblicato un articolo di Paul Alliès dal titolo “Viva il Parlamento europeo costituente”. Questo articolo, riportato anche dalla stampa del MFE, riprende ed espone con grande chiarezza la tesi di coloro che pensano che il nuovo Parlamento europeo possa e debba ereditare, emendare o riscrivere la cosiddetta “costituzione”, uscita dal lavoro successivo della Convenzione, della Conferenza intergovernativa e del Consiglio europeo.

Alliès contesta anzitutto l’adozione di una costituzione da parte del Consiglio europeo quindici giorni dopo l’elezione dei deputati europei, così esclusi dal processo. Ricorda che, nella tradizione democratica, una costituzione è indissolubilmente legata al principio di una convenzione costituente e di una ratifica popolare, nel solco non solo delle rivoluzioni americana e francese del settecento, ma anche della nascita della Seconda repubblica francese nel 1848 e poi dell’Italia repubblicana nel secondo dopoguerra, della Grecia del 1975, della Spagna del 1978 e della Polonia del 1995. Conclude con la richiesta di un mandato costituente al nuovo Parlamento europeo. Alliès sembra dimenticare che questa strada è già stata tentata invano dal Parlamento europeo nel 1984, sotto la guida di Altiero Spinelli. E sembra dimenticare la lezione di quello scacco.

In realtà, un’analisi della nascita delle costituzioni sopra citate evidenzia che la stesura di una costituzione e la creazione di uno Stato sono due cose distinte. Quando un’assemblea costituente redige una costituzione, nella maggior parte dei casi lo Stato nuovo è già nato, cioè il sistema di potere precedente è già crollato e sono i nuovi detentori provvisori del potere a conferire ad un’assemblea il mandato di redigere una costituzione e di dare un assetto giuridico al nuovo ordine. Altiero Spinelli e il Parlamento europeo non avevano avuto questo mandato dai detentori del potere e il loro progetto è rimasto tale.

Pensare poi che il Parlamento europeo uscito dalle elezioni del 13 giugno scorso (caratterizzate dalla scarsa partecipazione in diversi paesi e dall’elezione di parecchi rappresentanti euroscettici, souverainistes se non addirittura secessionisti e sulle quali tutta la stampa europea ha svolto le più sconsolate considerazioni) possa concepire un’azione, se non come quella dell’Assemblea francese uscita dalla Pallacorda, almeno come quella suscitata da Spinelli, è andare contro il buon senso. Il nuovo Parlamento europeo agirà invece, e con tutti i problemi derivanti dalla sua composizione, nell’ambito dei modesti e defatiganti compiti descritti nel Trattato costituzionale approvato il 18 giugno dal Consiglio europeo, naturalmente quando il Trattato sarà ratificato all’unanimità dai Venticinque, se alla fine sarà davvero ratificato.

Una descrizione meno ideologica di che cosa sia questo Trattato (e di chi ne sia il neanche tanto occulto redattore) è invece contenuta nel breve articolo dal titolo “A carte scoperte “, che Sergio Romano ha pubblicato sul Corriere della Sera del 19 giugno scorso, all’indomani del Consiglio europeo. La sua analisi può essere così riassunta. Temendo la nascita di un’Europa composta da due cerchi concentrici, con un nucleo compatto e federale, all’interno di una più vasta confederazione, la Gran Bretagna ha visto da sempre nell’allargamento la possibilità di spegnere le ambizioni federaliste dei partner, accogliendo così paesi poco sensibili al sogno europeo dei federalisti, interessati a servirsi dell’Unione per il loro sviluppo, decisi a conservare la loro sovranità e inclini a considerare le loro relazioni con Washington più utili dei legami con Bruxelles. Mentre mesi fa aveva potuto lasciare ad altri (Madrid e Varsavia) l’ingrato compito di andare all’assalto e sporcarsi le mani, il 18 giugno ha dovuto scoprire le carte per frenare il processo d’integrazione.

Ma purtroppo anche Sergio Romano pecca di irrealismo quando suppone che senza l’allargamento sarebbe nato un nucleo compatto e federale e quando conclude sostenendo che vi sono in Europa due famiglie, ispirate a filosofie diverse, e che la logica vorrebbe che le loro differenze fossero riconosciute e che ciascuna di esse potesse seguire la propria strada.

In realtà nessuno in Europa, neanche chi vi ha alluso più o meno confusamente in passato, vuole oggi concretamente, al di là delle parole, quello che Romano chiama “un nucleo compatto e federale”. Non è ancora in corso, né al Parlamento europeo né altrove, una battaglia fra sostenitori degli Stati e sostenitori della federazione. Agli abili e determinati sostenitori degli Stati si oppongono solo i “comunitaristi”, una specie che potremmo descrivere come dotata di scarsa coscienza nei suoi rappresentanti migliori, scientemente connivente negli altri, una specie comunque destinata alla sconfitta.

E’ necessario che almeno i federalisti mantengano la lucida coscienza di questo stato di cose, non si aspettino miracoli dal povero Parlamento europeo del 13 giugno e non cessino di richiamare la classe politica e i governi dei pochi Stati in cui questo messaggio può essere oggi ascoltato alla necessità di una rottura e di un nuovo patto, fuori dal quadro mortale dell’attuale Unione europea.

 

 

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