Lo scorso 26 novembre il nuovo Presidente della Commissione europea Jean-Claude Juncker ha presentato un piano di investimenti per il rilancio della crescita in Europa. L’obiettivo è quello di mettere in campo risorse per un totale di 315 miliardi di euro, senza la creazione di debito, per stimolare la crescita puntando l’attenzione su investimenti in trasporti, energia, ricerca e formazione. Questi fondi verrebbero impiegati per finanziare a livello europeo i più validi progetti di sviluppo tra quelli che gli Stati si sono impegnati a presentare; attualmente sono quasi 2000 i progetti presentati alla BEI (la Banca europea per gli investimenti, ossia l’altra istituzione europea cui fa capo il Piano, oltre alla Commissione) per ottenere i finanziamenti.

Nonostante le buone intenzioni, il Piano Juncker non è stato esente da critiche. Un primo dubbio riguarda la reale capacità del piano di raggiungere l’obiettivo dei 315 miliardi di investimenti; le risorse messe in campo  sono infatti solo 21 miliardi, di cui 16 provenienti dal bilancio dell’UE e 5 dalla Banca europea per gli investimenti (BEI). Il resto del Piano dovrebbe infatti finanziarsi attraverso fondi provenienti dagli investitori privati in due fasi: nella prima la BEI userebbe i 21 miliardi iniziali come garanzia per emettere obbligazioni sul mercato per un totale di 60 miliardi di euro con cui finanziare i progetti strategici; nella seconda fase i 60 miliardi dovrebbero servire da leva finanziaria per attirare ulteriori investimenti privati ed arrivare alla cifra di 315 miliardi di euro grazie all’ effetto moltiplicatore. E’ evidente che una delle principali critiche a questo procedimento è proprio la previsione “ottimista” sulla capacità del moltiplicatore di arrivare ad una cifra cosi consistente. La garanzia dei 21 miliardi rischia, infatti, di scoraggiare gli investitori, in quanto può essere ritenuta una cifra troppo bassa per coprire eventuali perdite o insuccessi dei progetti finanziati. Il rischio è, allora, che per attirare i fondi privati la BEI decida di finanziare i progetti che presentano le maggiori garanzie di successo in tempi brevi, provocando delle distorsioni nei meccanismi di allocazione delle risorse del Piano.

Proprio l’allocazione delle risorse, cioè quali progetti premiare (e di quali paesi), rappresenta, infatti, un ulteriore punto di criticità dell’iniziativa. Anche il presidente di Assolombarda, Gianfranco Rocca, in occasione di un incontro con il Vice-presidente della Commissione Europea Katainen, ha espresso nel suo discorso (il cui testo è disponibile online sul sito di Assolombarda) le preoccupazioni che riguardano proprio i meccanismi di allocazione delle risorse. La critica di Rocca è che, al fine di rassicurare gli investitori, si rischia di procedere concedendo i finanziamenti a quei progetti che hanno un basso profilo di rischio e dei ritorni di breve periodo. Cosa che, però, avrebbe un duplice effetto negativo: in primo luogo verrebbero penalizzati quei progetti altamente innovativi che hanno, però, dei ritorni di profitto solo nel lungo periodo; anche le piccole e medie imprese rischiano di essere penalizzate perché, a causa delle loro dimensioni, non sarebbero in grado di garantire la validità dei propri progetti. In secondo luogo, si corre il rischio di penalizzare i paesi cosiddetti europeriferici, come l’Italia. Tra le variabili che influiscono sulla capacità di un paese di attrarre investimenti privati, secondo Rocca, ci sono anche i tempi della giustizia civile e della burocrazia. Si tratta di punti di debolezza di cui soffrono i paesi della periferia europea, che rischiano di rimanere penalizzati e di veder messo a rischio il percorso di riforme strutturali già avviato. Se entrambe queste eventualità dovessero verificarsi il risultato sarebbe senza dubbio contradditorio: le risorse del Piano Juncker si concentrerebbero sui progetti di quei paesi che già oggi non incontrano problemi di finanziamento poiché giudicati sicuri dagli investitori privati. Il rischio concreto è quello di aumentare le divergenze economiche e di non dare un sufficiente stimolo all’innovazione in Europa.

Il Piano Juncker è dunque un punto di partenza per rilanciare la crescita, ma niente di più di questo. Affinché l’Europa esca dalla crisi economica attuale, prosegue Rocca, sono necessari ulteriori passi, ben più impegnativi. Se gli Stati devono continuare il proprio percorso di risanamento dei conti e di riforme strutturali, e se l’impegno degli in tale percorso può essere incentivato con una maggiore flessibilità sulle regole europee di bilancio, rimane il fatto che non è la dimensione nazionale che può esaurire il percorso di uscita dalla crisi economica. Per l’Europa, ed in particolare per l’Eurozona, è necessario avviare un percorso di approfondimento dell’unione monetaria ed economica volta ad una condivisione delle politiche fiscali e ad una cessione di sovranità. Solo infatti con una politica fiscale comune “sarà possibile per l’Europa recuperare quella crescita economica che è l’unica garanzia di sostenibilità futura dei debiti accumulati e di contenimento delle disuguaglianze”.

 

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