Finalmente, il grilletto del bazooka è stato premuto. Il 9 marzo scorso, è partito il Quantitative Easing della Banca Centrale Europea (BCE). Propriamente denominato Public Sector Purchase Programme (PSPP), il piano era stato precedentemente annunciato da Mario Draghi il 22 gennaio scorso, al fine di intervenire su una situazione in cui gli indicatori, che riflettono un tasso di inflazione tendente allo zero, continuano ad incidere negativamente sull’andamento dei prezzi a medio termine. Si tratterebbe quindi di intervenire massicciamente al fine di stimolare un’economia in cui i tassi di interesse sono praticamente negativi, attraverso l’acquisto – sul mercato secondario – di titoli pubblici e privati al ritmo di 60 miliardi al mese, sino a quando il percorso inflattivo non torni a essere in linea con il target sancito dai trattati: il 2% nel medio termine.

Essenzialmente, sostituendo i titoli con nuova liquidità, vi è un incentivo per le banche a finanziare le imprese nei paesi in cui vengono implementate politiche orientate alla crescita. Un tipo di intervento che segue nel tempo quello intrapreso dalla Federal Reserve, dalla Bank of England e dalla Banca del Giappone, e che cerca di invertire – secondo alcuni, con un certo ritardo – il percorso deflattivo in cui si è infilata l’Eurozona. Si tratta di un percorso particolarmente dannoso perché scoraggia gli investimenti delle imprese e anche le famiglie dall’acquistare e consumare (stante le aspettative di ulteriori cadute dei prezzi, tutti tendono a rinviare le proprie spese). In più, in un contesto di bassa inflazione, il valore reale dei debiti pubblici aumenta, rendendo più gravosa la restituzione dei crediti. Al contrario, un’inflazione più alta ha l’effetto di far calare il valore reale dei debiti pubblici, ed è proprio per questo che si può ritenere una politica di alleggerimento quantitativo, una sorta di patrimoniale per i risparmiatori. Nondimeno, secondo la BCE, l’economia europea trarrebbe come benefici collaterali una maggiore stabilità dei mercati finanziari e, soprattutto, rafforzando le misure di trasmissione della politica monetaria all’economia reale, verrebbe alimentata la domanda interna, allo scopo di migliorare le prospettive di crescita economica (anche se l’impatto sulla domanda interna, di fatto, è incerto a causa della possibile distribuzione asimmetrica della ricchezza che potrebbe favorire l’accumulazione dei benefici verso “chi ha” rispetto a “chi non ha”. Quindi non è detto che possa rilanciare i consumi di massa).

Un altro aspetto, che esula dalle considerazioni economiche finora enunciate, riguarda alcuni elementi, più di carattere politico, che hanno reso e tutt’ora rendono piuttosto controverso – e significativo al tempo stesso –  l’utilizzo del bazooka così come la gestione della politica monetaria da parte del suo Presidente. Infatti, attraverso l’implementazione del programma di acquisto di titoli obbligazionari, Mario Draghi ha dato ulteriore prova dell’esercizio della sua leadership. Innanzitutto dimostrando con i fatti la volontà della Banca centrale di mettere in pratica il “whatever it takes to save the euro”, per dirla con le parole del Governatore nel celebre discorso di Londra del 2 agosto 2012, quando il solo effetto annuncio aveva sortito l’effetto di calmierare le turbolenze dei mercati finanziari che fino a quel momento avevano attribuito scarsa credibilità all’operato della Banca. In più, riallacciandosi (attraverso i continui richiami alla necessità di completare con l’unione fiscale e quella politica l’unione monetaria) al progetto politico presentato dal Rapporto dei Quattro Presidenti del giugno 2012 e dal successivo Piano per un’autentica e profonda Unione economica e monetaria, ha indicato quale sia la copertura politica che, nei fatti, legittima questo tipo di interventi monetari non convenzionali, e che gli permette di superare l’ostilità  di alcune componenti sia del Consiglio europeo, sia del Sistema europeo delle banche centrali.

Il punto, infatti, è che in una banca centrale tradizionale, il QE sarebbe ampiamente riconosciuto come strumento legittimo di politica monetaria, anche se non convenzionale. Ma nell’UEM il problema politico sorge a monte. Se, generalmente, le banche centrali operano in un contesto di simmetrica centralizzazione di politiche monetarie e fiscali, la BCE, al contrario, opera in un contesto in cui la politica monetaria è centralizzata ma a fronte di tante politiche fiscali quanti sono gli Stati aderenti all’Eurozona. Il vero problema sta dunque nel fatto che l’Eurozona non possiede una capacità fiscale centralizzata con la relativa legittimazione democratica. Ed è proprio questo limite che potrebbe rendere il QE relativamente debole, perché porta con sé la scarsa quota di condivisione del rischio. Il Board della banca ha convenuto, infatti, che il rischio debba essere ripartito all’80% tra gli Stati membri, nell’ottica del principio del pro quota. Rimane quindi una condivisione minima, il restante 20%, che rimane in capo ai bilanci di alcune istituzioni sovrannazionali (BEI, EFSF, ESM, UE).

Al tempo stesso, se la scarsa misura di condivisione del rischio da una parte limita l’intensità del bazooka, dall’altra è pur sempre un primo passo nell’affermarsi del principio del risk-sharing, e come tale può essere visto come il preludio dell’unione fiscale. In particolare, può diventare il grimaldello per l’accettabilità politica degli accordi contrattuali tra Stati membri e Commissione che erano previsti nel Blueprint della Commissione (novembre 2012) al fine di incentivare e rendere gli Stati meno sensibili agli shocks di breve periodo e quindi ai costi economico-sociali dovuti ai cambiamenti strutturali delle proprie economie necessari per rendere l’Unione economica e monetaria maggiormente resiliente alle crisi.

Sicuramente, l’intervento della BCE non è una panacea: si tratta di una condizione necessaria, ma non sufficiente per superare quel percorso deflattivo, con tassi di disoccupazione senza precedenti, da cui l’area dell’euro sembra non riuscire a uscire. Esso dovrebbe incentivare gli Stati membri ad attuare le riforme strutturali che ingessano l’economia e la società europea. Allo stesso modo, potrebbe incentivare tutta una serie di investimenti in beni pubblici europei favorendo anche l’attuazione del Piano Juncker. Il vero nodo politico, però, non sta certamente nel maggiore o minore utilizzo della politica monetaria: si tratta di governare la politica europea, di fare in modo che la politica fiscale europea non sia la sommatoria delle politiche fiscali degli Stati membri ma diventi una questione davvero europea. È sotto gli occhi di tutti quanto bene funzioni una politica gestita a livello federale. Quello che serve è completare l’unione monetaria, trasformandola in una vera unione economica europea, con un governo che sia responsabile davanti al Parlamento europeo. Solo in questo modo gli euroscettici e i nazionalisti dovranno cercare nuovi ritornelli e, probabilmente, cambiare spin-doctor.

 

Informazioni aggiuntive