Il dibattito sulla Brexit, la possibilità che il Regno Unito decida di uscire dall’Unione europea, caratterizza già da alcuni anni il confronto politico d’oltremanica. Tuttavia, il risultato dell’elezioni politiche generali dello scorso maggio (che hanno visto  la  conferma del Primo ministro uscente David Cameron) ha sicuramente comportato un’accelerazione della discussione. L’organizzazione del referendum è infatti stato uno degli argomenti con cui il riconfermato inquilino di Downing Street ha limitato lo United Kingdom Indipendent Party di Nigel Farage ed è per questo che la legge di indizione del referendum è stata inserita nel programma di governo illustrato lo scorso 27 maggio da Elisabetta II nel tradizionale discorso di inizio legislatura.

Il capitolo Brexit  si giocherà su differenti tavoli. Infatti, se da un lato il governo cercherà di utilizzare la minaccia del referendum per ottenere una vantaggiosa rinegoziazione degli attuali trattati, dall’altro lo stesso mondo produttivo britannico appare preoccupato dalle ripercussioni che potrebbero colpire l’economia del Regno nel caso di un’uscita dall’UE. Infine se da un lato alcuni esponenti del Partito conservatore appaiono pronti a perseguire l’uscita dall’UE a qualsiasi costo (http://www.telegraph.co.uk/news/newstopics/eureferendum/11641133/Second-referendum-in-five-years-if-voters-choose-to-stay-in-EU.html), dall’altra la questione dell’indipendentismo scozzese potrebbe riaccendersi in caso di un esito isolazionista del referendum.

Sul piano delle trattative in sede eurounitaria sono tre le questioni chiave che verranno affrontate da David Cameron: quella dell'immigrazione, quella dell'integrazione politica e quella dell'integrazione legislativa.

1) Sul piano delle politiche di immigrazione vi dovrebbero essere due richieste: la prima è la possibilità per il governo di Londra di escludere dalle politiche sociali i cittadini dell’Unione nei loro primi quattro anni di residenza in Gran Bretagna. La seconda è il diritto di espellere i cittadini europei presenti in territorio britannico e disoccupati per più di sei mesi.

2) Sul piano delle integrazione politica il nuovo governo chiederà di istituire dei meccanismi  che tutelino i paesi non aderenti all’euro rispetto alla possibilità di una maggiore integrazione dell’eurozona.

3) Sul piano legislativo l’obbiettivo è quello di ottenere una regolamentazione che blocchi una qualsiasi nuova legislazione comunitaria nel caso vi si oppongano tre/quattro parlamenti nazionali.

Ma a queste richieste si contrappongono dei dati che mostrano i limiti della Brexit.
In materia di immigrazione infatti le cifre confermano che meno della metà gli immigrati che si trasferiscono ogni anno in Gran Bretagna hanno passaporto europeo. Inoltre è curioso notare come la Norvegia, paese spesso preso ad esempio dai sostenitori della fuoriuscita britannica, accolga ogni anno un numero di immigrati europei pro capite doppio rispetto al Regno Unito.

Sul piano economico sono molti i dati che dovrebbero scoraggiare la Brexit. La London School of Economics ha infatti calcolato in una forbice compresa tra il 2,2% ed  9,5% la perdita di PIL che il Regno Unito sconterebbe in caso di uscita dell’UE (molto dipenderebbe da quali accordi commerciali verrebbero salvaguardati e quali no); mentre per la fondazione tedesca Bertelsmann si potrebbe giungere ad una perdita anche del 14% del PIL se si calcolasse anche la possibile conseguente fuoriuscita della Scozia dal Regno.
Indicative sono anche le indiscrezioni fuoriuscite da gruppi finanziari (come Deutsche Bank e Goldman Sachs) ed industriali (Nestlè, Airbus, Ford) sul disimpegno dall’economia inglese dei suddetti operatori in caso di uscita dall’Unione (http://www.theguardian.com/politics/2015/may/20/eu-referendum-airbus-uk-chief-brexit-hurt-jobs-investment).

Infine, molte delle suddette richieste, se accolte, richiederebbero una modifica dei trattati vigenti; ed a questo proposito sono interessanti le indiscrezioni pubblicate dal quotidiano francese Le Monde (http://www.lemonde.fr/europe/article/2015/05/25/le-no-thanks-de-merkel-et-hollande-a-cameron_4639732_3214.html)  su un accordo franco-tedesco volto, al contrario, a favorire una maggiore integrazione europea.

Per concludere, l’uscita del Regno Unito dall’Unione Europea sarebbe sicuramente una perdita per l’Unione, ma in realtà sarebbe un problema ben maggiore per il Regno Unito stesso. Ed è per questo che gli Stati e le istituzioni europee dovranno evitare di accettare le richieste del governo di Londra. Tali concessioni infatti non fermerebbero l’ala più estrema e rumorosa del movimento separatista britannico (http://www.telegraph.co.uk/news/newstopics/eureferendum/11641133/Second-referendum-in-five-years-if-voters-choose-to-stay-in-EU.html) e comporterebbero invece un inaccettabile rallentamento del già debole processo di integrazione dell’eurozona e dell’Unione Europea nel suo complesso.

 

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