La crisi finanziaria ed economica che sta colpendo la Grecia, e il dibattito che ne è seguito in Europa sul “se” e sul “come” intervenire, costituiscono un segnale della situazione in cui versano l’Unione monetaria europea e le economie dei paesi dell’Eurozona, e quindi un banco di prova dell’euro e dell’Unione europea stessa.

Bisogna dire subito che, se si dovesse valutare dai risultati del Consiglio del 25 marzo scorso la capacità di reazione europea di fronte all’emergenza della crisi, il giudizio sarebbe drammatico, al di là dell’effetto psicologico prodotto dall’annuncio trionfalistico che i capi di Stato e di governo hanno diramato. Il compromesso raggiunto da Francia e Germania, basato sulla ferma volontà tedesca di non impegnarsi a sostegno della Grecia, non ha infatti prodotto una soluzione, come ha ben spiegato Muenchau sulle pagine del Financial Times, ma un pasticcio: sia perché gli europei si sono piegati a chiedere l’intervento del FMI in caso di rischio di insolvenza della Grecia, dando così una prova di enorme debolezza politica; sia perché i prestiti bilaterali coordinati volontari che gli Stati dell’eurozona si sono impegnati a fornire alla Grecia, sempre in caso di insolvenza, sarebbero soggetti a condizioni tali da rendere impensabile l’ipotesi di una effettiva richiesta da parte del governo greco (verrebbero erogati a tassi troppo elevati per poter essere di reale aiuto, dato che si parla di tassi di mercato per un paese in default, e dovrebbero essere decisi all’unanimità dei paesi dell’eurogruppo, con il consenso della Commissione e della BCE: altra condizione difficilmente realizzabile). A parziale mitigazione di una valutazione totalmente negativa, oltre a constatare che per la prima volta la BCE ha dato reali segnali di autonomia, manifestando una reazione in totale disaccordo con quella tedesca, si può solo notare che la tendenza a temporeggiare di fronte al presentarsi di crisi e di contraddizioni del processo è tipica degli Stati europei, assolutamente restii a prendere atto della necessità di rinunciare a quote del loro, per quanto inadeguato, potere nazionale. La storia della nascita della moneta europea, la cui necessità era evidente già alla fine degli anni Sessanta, è esemplare sotto questo profilo. Resta il fatto, comunque, che in questo momento gli europei non si sono dotati di nessuno strumento per fronteggiare la prossima, inevitabile manifestazione della crisi strutturale che incombe sulla zona dell’euro.

Il punto fondamentale, infatti, è che, dopo dieci anni in cui l’Unione monetaria europea è riuscita a vivere, conseguendo anche importanti successi, nonostante la contraddizione di una “moneta senza Stato”, la crisi finanziaria ed economica, insieme alla trasformazione degli equilibri di potere in campo economico e politico in atto a livello mondiale, sembrano aver rotto il fragile equilibrio su cui si reggeva. L’ipotesi su cui si basava la scommessa di far vivere nel tempo una moneta sganciata dal potere di governo dell’economia e da una fiscalità unica, o almeno strettamente coordinata, era che le economie dell’area euro fossero sufficientemente omogenee da essere al riparo da shock asimmetrici. Si presupponeva che la disciplina di bilancio fosse un parametro sufficiente a garantire tale uniformità. Tuttavia visto il progressivo allargamento dell’area dell’euro a paesi con debolezze strutturali non solo di bilancio, ma anche per quanto riguarda la produttività e la capacità di competere a livello commerciale internazionale, è diventato via via evidente quanto tale ipotesi fosse infondata; a maggior ragione quando si considera che, a parte i – pochi – paesi che hanno espressamente dichiarato di non sentirsi impegnati ad entrare a far parte dell’UEM, tutti i membri dell’Unione europea si preparano ad entrarvi con le regole attuali. Fatto sta che il modello adottato agli inizi degli anni Novanta non prevedeva politiche uniche o anche solo coordinate in campo economico volte a sostenere lo sviluppo in modo omogeneo a livello dell’UEM, ma solo politiche nazionali vincolate ai parametri del Patto di Stabilità, che non è mai potuto diventare anche un Patto di Crescita, come invece si era auspicato. Questo perché il tutto da un lato era implicitamente sorretto dall’ipotesi di essere inserito nel quadro di un graduale, ma all’epoca indiscusso, progetto di unificazione politica e, dall’altro lato, dava per scontata la sopravvivenza, se non addirittura il rafforzamento, della solidarietà tra i partner, che era alla base dei vari meccanismi comunitari di compensazione e di (parziale) redistribuzione della ricchezza tra le diverse aree dell’Europa del dopoguerra.

Una volta che il senso del progetto politico è venuto meno e che la solidarietà si è incrinata, sono inesorabilmente giunti al pettine i nodi dell’assenza dell’unità politica, al punto che la convivenza di situazioni tanto eterogenee dal punto di vista economico e finanziario, quanto contraddittorie dal punto di vista politico e sociale, all’interno di un’area monetaria comune sta producendo tensioni potenzialmente dirompenti. Non a caso i due fuochi della crisi che stiamo vivendo sono emblematicamente rappresentati dalle scelte e dagli interessi che si trovano a dover compiere o difendere i governi della Grecia e della Germania. Tutto ciò in un quadro internazionale in cui la competizione economica sta facendo emergere nuovi soggetti ed emarginandone altri, tra cui gli europei, la cui crescita è ormai così debole da rendere impossibili gli investimenti necessari per avviare le nuove politiche di sviluppo.

E’ in seguito a questa situazione che il mercato internazionale, sempre più globale e privo di un potere di riferimento e di controllo, ha iniziato a scommettere sull’impossibilità da parte dei paesi più deboli dell’area euro di riuscire a rimanere agganciati alla moneta unica che, paradossalmente, con le regole attuali mette questi ultimi al riparo dalle tempeste monetarie, ma – impedendogli sia di ricorrere a svalutazioni competitive o ad aumenti di emissione di valuta che offrirebbero, almeno a breve, delle scappatoie rispetto alla morsa della speculazione, sia di poter contare su meccanismi credibili e tempestivi di sostegno europei – li espone al rischio della bancarotta per l’impossibilità di pagare i costi del proprio debito gonfiati dalla speculazione. Un processo analogo si era innescato sul fronte monetario all’inizio degli anni Novanta nei confronti dello SME, quando gli speculatori internazionali avevano costretto i paesi più deboli ad abbandonare il sistema monetario. Allora solo la scelta politica da parte di un gruppo di paesi di proseguire sul cammino della creazione dell’euro aveva permesso di riprendere il controllo di una situazione che stava per travolgere paesi come l’Italia.

Oggi, per saggiare la tenuta dell’euro, la speculazione ed il mercato si servono di altri strumenti rispetto a quelli usati contro lo SME, come i credit default swaps, ma l’intento è lo stesso: portare sull’orlo della bancarotta l’anello più debole della catena. Basti pensare che la sola speculazione al ribasso sui titoli del debito pubblico o sulle assicurazioni sui titoli del debito costretto la Grecia a pagare tassi di interesse così elevati sulle nuove emissioni, da innescare una spirale insostenibile per il sistema economico e finanziario greco.

Tutto questo non deve però distogliere l’attenzione dal problema cruciale, che non è tanto quello di salvare nell’immediato la Grecia: le dimensioni ridotte della sua economia renderebbero, infatti, abbastanza facilmente superabili le difficoltà contingenti, in quanto le cifre in questione per un salvataggio sarebbero alla portata dell’intervento degli altri partner europei. Il vero problema risiede invece nella manifesta possibilità che tutti gli Stati dell’UEM con conti critici diventino prima o poi preda della speculazione e quindi al tempo stesso vittime e soggetti amplificatori della inadeguatezza dell’UEM.

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La posizione della Germania, in questa fase, è tanto più grave quanto più diventa chiara la posta in gioco. Chi sostiene, nel paese, l’opzione di un aumento della coesione a livello europeo è chiaramente in difficoltà. Il Ministro Schaeuble, che sembra difendere questa opzione e che è intervenuto pubblicamente per rilanciare l’idea della nascita di un Fondo Monetario Europeo, ha però accompagnato questa proposta che vorrebbe (e dovrebbe) essere di tipo solidale, con tali e tanti vincoli da farla apparire irrealistica e inaccettabile: non solo l’ha affiancata a richieste di sanzioni nei confronti del paese che il Fondo dovrebbe aiutare che richiamano alla memoria le riparazioni di guerra, e non solo ha menzionato la necessità di misure di risanamento dei conti che in questa fase di recessione mondiale metterebbero definitivamente in ginocchio il paese più in crisi di turno, con i costi sociali e politici che ne conseguirebbero, ma ha posto contestualmente anche il problema di un cambiamento dei Trattati, sia per introdurre una modifica nelle clausole che attualmente vietano, in base comunque ad interpretazioni controverse, il salvataggio di uno Stato insolvente dell’euro (questo, allo scopo di rafforzare il fronte europeista in Germania, ma al prezzo di pretendere una impensabile, in tempi ragionevoli ed utili, riforma che richiede l’unanimità dei Ventisette); sia al tempo stesso per stabilire la possibilità, oggi esclusa sul piano giuridico e politico, come mostra uno studio della BCE (Withdrawal and Expulsion from the EU and EMU: some Reflections, 2009), di decretare l’espulsione del paese in questione dall’area euro senza che questo comporti, come ora, l’uscita dall’UE in toto.

Tutto ciò dimostra come, dietro l’atteggiamento moralistico nei confronti dei partner europei in difficoltà – atteggiamento rafforzato anche dai paletti giuridici posti dalla Corte costituzionale tedesca che vincolano effettivamente l’azione del governo tedesco –, ci sia una crescente deriva nazionalistica, che sta mettendo a repentaglio l’intesa franco-tedesca e, con essa, l’intero edificio europeo. C’è ormai un forte partito in Germania che pensa in termini di – male inteso – interesse tedesco, e che blandisce ed asseconda pericolosamente un’opinione pubblica sempre più ripiegata su se stessa a causa della crisi economica che, nonostante tutto, morde anche in quel paese; crisi che rende evidenti le storture di un modello basato sulla diminuzione del costo del lavoro con le relative conseguenze anche in termini di redditi, di crescente insicurezza, di aumento della povertà e del divario tra ricchi e poveri, ma che finora non ha prodotto alcuna seria riflessione in termini europei. Il risultato è che, pur di fronte a difficoltà reali, che anche in Germania sono percepite come preoccupanti, la risposta, invece di essere quella di un richiamo alla solidarietà europea e ad un modello condiviso di crescita, è quella dell’egoismo nazionale e della tentazione di espellere dall’euro i paesi zavorra, nell’illusione di rappresentare comunque un modello (nazionale) vincente: su questa strada il destino dell’UEM è inevitabilmente quello della disintegrazione.

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Va da sé che accettare, o addirittura “accompagnare”, la disgregazione dell’Unione monetaria rappresenta una scelta suicida, non solo per i paesi più deboli, ma per la stessa Germania. Se crollasse l’euro difficilmente ci potrebbe essere un futuro per l’Unione europea così come è andata formandosi in questi sessant’anni di integrazione, durante i quali ha rappresentato il quadro che ha permesso lo sviluppo, nel benessere e nella pace, di tutti gli europei, tedeschi inclusi. Il principio che ha sempre caratterizzato il processo di unificazione è stato quello di dar vita ad una comunità integrata, il cui orientamento, per quanto realizzato in modo imperfetto, fosse quello di privilegiare l’interesse comune e la solidarietà reciproca. Se l’UEM si disgregasse proprio per il riemergere degli egoismi e delle incompatibilità nazionali, difficilmente il mercato unico, che implica anche meccanismi, per quanto deboli, di redistribuzione, potrebbe mantenersi con le caratteristiche attuali e l’UE diventerebbe semplicemente un’area di libero scambio, diluita nella liberalizzazione mondiale, pronta a dividersi quando il pendolo della storia oscillasse verso il protezionismo e sempre più in balia delle scelte fatte al di fuori dell’Europa. In un simile contesto, quanto resisterebbe la stessa Germania dopo aver messo in ginocchio il mercato che costituisce la base del suo successo, in un quadro di competizione internazionale che la vedrebbe costretta a tenere il passo direttamente con la Cina e gli USA senza più il paracadute del mercato unico europeo?

Anche se la razionalità non è necessariamente il criterio che muove le scelte degli Stati, e la storia è piena di esempi negativi in questo senso, resta il fatto che prima di disfare la costruzione europea e di decretare la fine di un continente, è probabile, o almeno possibile, che l’incombere della catastrofe spinga gli Stati verso l’unica scelta ragionevole, quella di una maggiore unità. Ma perché ciò avvenga anche gli altri partner europei della Germania devono incominciare ad essere consapevoli della posta in gioco e della necessità di promuovere, e innanzitutto di volere, tale unità.

 

In questi anni di strisciante rinazionalizzazione e di indebolimento del progetto politico europeo all’ombra di una dirompente globalizzazione, solo in apparenza foriera di un inarrestabile progresso e benessere per tutti, si è perso il senso della direzione di marcia verso “l’unità dell’Europa”, ed il suo scopo. Per riprenderlo occorre ripartire da una semplice verità. Bisogna, cioè, innanzitutto ritornare a collegare la moneta unica alla necessità dello Stato federale europeo, come era chiaro negli anni Novanta quando questo dibattito è stato affrontato, stato riconosciuto come centrale e poi è stato accantonato in attesa che maturassero le condizioni che mostrassero l’impossibilità della sopravvivenza di una moneta senza Stato. Ora che queste condizioni sembrano maturate, è a questo dibattito che bisogna tornare, e se nel frattempo la volontà politica degli Stati si è fortemente affievolita diventa indispensabile identificare, tenendo bene in vista la prospettiva della necessità della creazione dello Stato federale europeo, le misure immediate che gli Stati possono prendere riguardo alle due emergenze del momento: salvare l’euro e rafforzare il governo economico europeo.

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Se si analizzano le diverse, e numerose, proposte che vengono avanzate per fronteggiare la crisi in atto –, al di là del fatto che il dibattito in corso è ancora embrionale e molto confuso –, i dati che emergono costantemente riguardano il fatto che l’UE non possiede gli strumenti adeguati né per affrontare le crisi finanziarie ed economiche, né per prevenirle, perché il Patto di Stabilità si è rivelato del tutto inadeguato e, d’altro canto, gli europei, in questi ultimi quindici anni, non sono riusciti a dotarsi di istituzioni più efficaci, né a rafforzare i meccanismi di solidarietà e la coesione all’interno dell’eurogruppo. L’ostacolo fondamentale è quindi politico, perché manca al momento la volontà di pensare ed agire in termini di interesse comune. Al tempo stesso, per quanto gli Stati non vogliano cedere potere e rimangano ancorati ad un quadro sostanzialmente intergovernativo, nella misura in cui la crisi dell’UEM è strutturale, diventa inevitabile che, a fronte della possibilità concreta di una disgregazione dell’area dell’euro, si debba procedere ad un rafforzamento della governance economica a livello europeo. Quest’ultima, anche senza parlare di vero e proprio governo, presuppone comunque uno stretto coordinamento delle politiche economiche e di bilancio. La possibilità stessa dell’emissione di bonds da parte dell’Unione pone immediatamente il problema di un vincolo in questi due settori; così pure, sembra difficile aggirare – proprio per il fatto che si è in presenza al tempo stesso di una moneta unica e di politiche economiche nazionali, e non esistono quindi strumenti politici federali per la risoluzione degli squilibri – la questione della creazione di un Fondo europeo di stabilità e di solidarietà, che a sua volta implica un intervento diretto nelle politiche economiche e di bilancio nazionali.

Lo stretto coordinamento delle politiche economiche e fiscali è quindi la condizione necessaria per riuscire a mettere in atto politiche di risposta alla crisi; e quindi in qualche modo l’eurogruppo dovrà gestire un potere – benché non autonomo, ma solo derivato dagli Stati membri – di intervento nelle politiche economiche e di bilancio sia dei paesi in difficoltà, sia, essendo all’interno della stessa area monetaria, di tutti i membri, che devono essere legati a scelte compatibili e convergenti.

Certamente, in questo contesto si tratterebbe di una risposta ancora intergovernativa che comporterebbe contraddizioni ancora più evidenti e insopportabili rispetto a quelle prodotte da un ”euro senza Stato”, soprattutto in termini di deficit democratico.

Oltretutto, il funzionamento di un simile sistema sarebbe fortemente ostacolato dal permanere (insito in ogni meccanismo intergovernativo) dell’idea stessa, e quindi della conseguente difesa, dell’interesse nazionale da parte di ciascun membro. Occorre però osservare che intraprendere questa strada implicherebbe innanzitutto il fatto di riconoscere l’Eurogruppo come quadro istituzionale di riferimento, e inizierebbe quindi a costituire una prima rottura del quadro comunitario dei Ventisette, troppo eterogeneo per rendere realistiche scelte di maggiore unità (e l’Eurogruppo è anche un quadro in cui la leadership franco-tedesca, unico possibile motore del rafforzamento europeo, è indiscussa). Ma, soprattutto, soluzioni in questa direzione, per quanto precarie, implicherebbero un’inversione di tendenza rispetto a questi ultimi anni di rinazionalizzazione all’interno dell’Unione e rappresenterebbero un ritorno alla consapevolezza del valore della solidarietà e ad un clima di maggiore fiducia reciproca tra gli europei, condizione indispensabile per rilanciare qualsiasi progetto politico di unificazione.

Al tempo stesso è evidente, che non è pensabile che questo quadro di governance economica europea si sviluppi e duri nel tempo se nel frattempo non inizia a maturare – in un gruppo di paesi, e innanzitutto in Germania e in Francia – la consapevolezza della necessità di portare finalmente a compimento il progetto dell’unità politica: vale a dire la creazione dello Stato federale europeo, dotato di poteri circoscritti ma reali e di risorse proprie.

Per i federalisti, dunque, in questo momento drammatico, ma che potrebbe al tempo stesso rivelarsi decisivo, si tratta di porre agli Stati il problema di salvare immediatamente l’euro, inquadrando questa proposta nella sola prospettiva che può dare effettiva stabilità alla costruzione europea, ossia quella della fondazione di uno Stato federale europeo a partire da un’avanguardia di paesi.

  

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