Le elezioni politiche di aprile hanno visto crescere sensibilmente le percentuali della Lega Nord il cui appoggio è diventato quindi fondamentale per la maggioranza di centrodestra. Numerosi dicasteri sono stati assegnati proprio ad esponenti di questo partito, tra cui il Ministero per il Federalismo per il quale è stato nominato Umberto Bossi. E’ così che, a circa un anno dall’approvazione del documento della Regione Lombardia sulla proposta di legge al Parlamento sull’attuazione del “federalismo fiscale”, il tema del federalismo è ritornato prepotentemente nel dibattito politico.

Con il voto del 19 giugno del 2007 sul documento “Risoluzione sull’Autonomia”, il Consiglio della Regione Lombardia, nelle parole del suo Presidente Albertoni, era entrata “finalmente nel merito della più vistosa carenza della riforma costituzionale del 2001, il federalismo fiscale”.

Il piano della Regione Lombardia prevedeva una “proposta di legge al Parlamento sull’attuazione del federalismo fiscale”, senza modificare la costituzione, facendo riferimento agli articoli 116,117 e 119 (rispettivamente: federalismo differenziato, materie di legislazione concorrente StatoRegione e autonomia finanziaria) per dotare la regione di nuovi poteri in diverse materie (dalla sanità ai giudici di pace, dall’energia al commercio con l’estero) e per mantenere sul territorio l’80% del gettito derivato dall’IVA, il 15% di quello dell’IRPEF, oltre alle accise su carburanti, tabacchi e lotterie.

 

Bastano due semplici calcoli per capire che una simile ripartizione del gettito fiscale priverebbe quasi completamente delle proprie entrate il governo centrale (che nonostante le debolezze, gli sprechi e le inefficienze svolge comunque un ruolo primario di indirizzo politico per il paese) e lascerebbe a molte regioni del Sud, come unica possibilità di sopravvivenza, solo quella di incoraggiare l’uso dei gratta&vinci e delle sigarette tra i propri cittadini. La proposta della Lombardia ha di conseguenza suscitato perplessità in tutto l’ambiente politico e in entrambi gli schieramenti, ed è stata fortunatamente accantonata come base di discussione per l’attuazione della ri

 

 

forma del federalismo fiscale in Italia. Persino il Presidente del Senato, Renato Schifani, nel suo ruolo di seconda carica dello Stato ha ribadito che “il federalismo deve avvicinare i processi decisionali ai cittadini e deve responsabilizzare chi detiene le risorse, ma non deve lasciare indietro i più deboli ed evitare il paese si divida in due”, mentre il suo predecessore Marini ha sollevato dubbi circa la costituzionalità di una simile operazione.

 

Il termine “federalismo fiscale” in Italia è stato molto spesso utilizzato da partiti e massmedia in modo per lo più improprio o superficiale, il più delle volte per indicare concetti che nulla hanno a che vedere con la riforma dell’ordinamento istituzionale italiano creando più livelli di governo autonomi nel proprio ambito, quanto piuttosto per far passare in maniera più larvata il messaggio cardine della propaganda leghista: “i nostri soldi a casa nostra”.

 

Basta semplicemente effettuare un confronto con le altre realtà europee ed americane per comprendere che il “federalismo fiscale” è qualcosa di completamente differente.

Il “fiscal federalism” è un concetto che nasce nel mondo anglosassone e indica per prima cosa, un sistema di tassazione in cui un governo federale (o centrale) divide i propri introiti con i livelli di governo federati o locali, differenziando le fonti del gettito o presupponendo un intervento del governo federale per riassegnare fondi alle regioni con minor reddito: generalmente agli enti locali sono assegnati i proventi dalla tassazione della proprietà, mentre i livelli di governo superiore traggono le proprie risorse da tasse di tipo indiretto, generalmente sul consumo. Il “fiscal federalism”, secondo la dottrina anglosassone (cfr. Bird, King) è applicabile anche a realtà non propriamente federali, come ad esempio uno Stato decentralizzato che vuole organizzare la ripartizione delle entrate fiscali sui diversi livelli di amministrazione interna (da quello cittadino a quello provinciale e regionale) o anche organizzazioni internazionali; e infatti si parlò di federalismo fiscale quando era in corso il dibattito

 

sul fatto di dotare l’allora Comunità europea di risorse finanziarie proprie.

Il federalismo fiscale presuppone comunque sempre solidarietà e responsabilità nella gestione, e infatti molto spesso il governo federale vincola l’utilizzo dei soldi devoluti agli enti federati al raggiungimento di obiettivi predeterminati: un esempio di applicazione è il Canada Health Transfer, ovvero un trasferimento di fondi dalle province più ricche a quelle più povere vincolato al loro impiego nel servizio sanitario, sotto la supervisione di un’agenzia federale.

 

In Germania invece, dove lo Stato ha una struttura federale molto marcata (che vede la duplicazione dei principali ministeri a livello regionale e federale e un importante ruolo di indirizzo politico da parte dei Laender) solo il 40 % del gettito derivato dalla tassazione è nelle mani del governo del Land, mentre il rimanente è competenza del governo federale. Una percentuale ben inferiore all’80% reclamato da Bossi e dal governatore Formigoni, per di più in uno Stato che è tuttora organizzato su base regionale e non federale!

 

Oltre al fatto di far venire completamente meno il principio di solidarietà che è alla base del federalismo (le regioni più povere si troverebbero nell’impossibilità di erogare servizi essenziali come la sanità e i trasporti per mancanza di fondi), chi intende attuare scelte di questo tipo, “liberando la locomotiva lombarda” (secondo le parole dell’Assessore Prosperini) dal peso delle altre regioni commette un errore sostanziale. Che una singola regione, per quanto dotata di risorse finanziarie molto consistenti, possa da sola trainare l’economia di un paese è un’ingenuità, per di più in malafede. In un mondo dove sono le grandi potenze a segnare il più alto trend di crescita, dove è vincente chi ha un sistema integrato continentale di sviluppo, è difficile immaginare che una Lombardia o un Veneto, come pseudoStati regionali di uno Stato nazionale in piena crisi e di fatto frammentato, possano sperare di competere con un’India (paese nel quale la struttura federale ispirata da Lord Lothian ha dimostrato di saper funziona

re egregiamente) o una Cina fortemente centralistica ed aggressiva.

E’ il pensiero del professor Miglio che ritorna, lo scomparso ideologo della Lega Nord che più volte cullò l’illusione che potesse esserci un’impennata della

 

 

crescita economica a seguito della frammentazione dello Stato “in una pluralità di sovranità” legate tra loro da un blando legame “confederale”, sul modello del Sacro Romano Impero del 1648, dopo Westfaila, che di fatto lascio gli Stati tedeschi in balia delle potenze europee

 

per oltre due secoli: l’Europa rischierà di trovarsi in una simile situazione, frammentata in Laender tronfi della loro “indipendenza fiscale” in balia di potenze economiche supportate da veri governi continentali?

 

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