Alla metà di novembre non è ancora possibile sapere con certezza se gli Stati Uniti attaccheranno l’Iraq, oppure se Bush si accontenterà di incassare il dividendo elettorale che consente al Partito Repubblicano di tenere saldamente in pugno i centri cruciali del potere. Ciò che è invece possibile sapere fin da ora è che nessuna guerra, neppure una guerra-lampo vittoriosa, riuscirebbe ad infliggere un duro colpo al terrorismo. Al contrario, rafforzerebbe le tendenze estremistiche e renderebbe ancora più fragile la coalizione che si è formata dopo l’11 settembre aprendo nuovi spazi per le organizzazioni che vogliono seminare il terrore in tutto il pianeta.

Una guerra contro l’Iraq avrebbe sicuramente l’effetto di allontanare dall’occidente i paesi arabi moderati, di aggravare il conflitto israelopalestinese facendo prevalere le ragioni della guerra contro quelle della pace e, infine, non farebbe compiere alcun passo avanti nella soluzione dei problemi che, in ultima istanza, alimentano il terrorismo.

É difficile pensare che, fin quando non verrà colmato il baratro che separa i paesi ricchi da quelli poveri, fin quando miliardi di uomini saranno vittime della fame e delle malattie, e fin quando le risorse del pianeta saranno saccheggiate da una minoranza incurante del resto dell’umanità, sarà possibile sradicare la violenza. Le organizzazioni internazionali – l’Onu e le sue agenzie, il Fondo Monetario Internazionale, la World Trade Organization ecc. – non sono in grado di proporre soluzioni che, sia pure gradualmente, affranchino il Sud del pianeta dalla miseria e dalla fame. D’altra parte, l’unica “superpotenza” sopravvissuta al crollo dell’URSS sembra più preoccupata di imporre con la forza (non necessariamente quella delle armi) la propria egemonia che non di promuovere un nuovo assetto del mondo per condividere con altri le responsabilità del suo governo. La tendenza a mettere gli USA sul banco degli accusati è inevitabile e in larga misura giustificata. Nei due anni trascorsi alla Casa Bianca Bush ha mostrato una particolare insensibilità verso i problemi più assillanti del pianeta, dalla tutela dell’ambiente alla lotta contro la povertà, dalle questioni del disarmo all’apertura del mercato americano ai prodotti del Terzo Mondo. Ma una volta sottolineato l’arrogante unilateralismo americano, dobbiamo anche chiederci che cosa fanno gli altri paesi per arginarlo e per promuovere un equilibrio mondiale più giusto e più pacifico. La sola risposta che possiamo dare è: nulla.

A dire il vero, dopo l’11 settembre la Russia e la Cina si sono subito schierate a fianco dell’America rafforzando la coalizione decisa a combattere il terrorismo internazionale ed evitando in questo modo che i falchi avessero la prevalenza. Dopo le minacce di Bush all’Iraq hanno costretto gli Stati Uniti a mitigare la loro posizione e a presentare al Consiglio di Sicurezza dell’Onu una mozione meno aggressiva. Ma se sono in qualche modo riuscite ad evitare il peggio, almeno nell’immediato, non hanno saputo mettere sul tavolo una proposta alternativa per la semplice ragione che non hanno la forza necessaria per opporre un secco no a Bush. E non è pensabile che la acquisteranno prima di qualche decennio.

Nella stessa circostanza quasi tutti i paesi europei, Inghilterra in testa, si sono schierati con Bush, affermando che qualsiasi cosa decida il governo americano, il loro posto è al fianco degli Stati Uniti. La Germania che, per ragioni elettorali, aveva dapprima opposto un netto rifiuto all’idea della guerra, ha poi attenuato la propria posizione annunciando semplicemente che non parteciperà ad azioni militari. Dal canto suo, la Francia ha cercato di ritagliarsi un posto sulla scena mondiale ma, nella sostanza, si è messa al rimorchio di Russia e Cina.

Se queste considerazioni sono corrette, alla colpa degli Stati Uniti corrisponde una colpa, non meno grave, dell’Europa. Divisa l’Europa non conta nulla ed è oggetto di giudizi sprezzanti, ma giustificati, da parte degli americani. Unita, avrebbe la forza per sbarrare la strada a politiche irresponsabili di cui non è difficile prevedere le conseguenze. Le colpe dei governi europei che vanno in cerca degli espedienti più fantasiosi pur di non cedere la loro illusoria sovranità in materia di difesa e di politica estera, diventano di giorno in giorno sempre più gravi perché il consenso intorno alla politica estera americana si sta progressivamente sfaldando. Basta confrontare il consenso internazionale di cui ha goduto l’America al tempo della Guerra del Golfo con quello, molto più tiepido, di cui gode oggi e con l’aperta opposizione di gran parte del mondo arabo, per concludere che una guerra contro l’Iraq ci lascerà tra le mani un mondo in preda ad un disordine molto più grave di quello odierno. Di fronte a questo pericolo incombente, non può non destare un senso di raccapriccio il fatto che i leader politici europei, dentro e fuori la Convenzione, trascorrano il loro tempo a discettare se l’Unione deve avere uno o due presidenti, se occorra istituire o meno un Congresso dei popoli d’Europa, se si devono aprire le porte alla Turchia, ecc., evitando di affrontare la sola cosa che conta: la creazione di un “solido Stato internazionale” di cui parlava Spinelli nel Manifesto di Ventotene. Che è poi il problema con il quale si deve confrontare il MFE se non vuole disperdere l’eredità del suo fondatore.

 

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