Il Presidente dell’ALDE al Parlamento europeo ha denunciato il fatto che gli Stati membri dell’UE continuano a mantenere le redini e l’Europa non ha né il potere, né i mezzi necessari per proporre un approccio unico, e ancor meno per imporlo. Ma finora egli non ha osato indicare e sostenere la strategia per uscire da questa impasse.

Nelle scorse settimane, gli ambienti politici e culturali legati al federalismo europeo hanno alzato un coro di applausi al già Primo ministro belga, ora presidente dei parlamentari europei del Gruppo ALDE, Guy Verhofstadt, per la lettera aperta indirizzata al nuovo Presidente del Consiglio dell’Unione europea, il connazionale Herman Van Rompuy, in vista del vertice informale di Capi di Stato e di Governo che si è tenuto l’11 febbraio scorso. In tale missiva il parlamentare europeo denunciava gli ultimi clamorosi fallimenti dell’UE, ossia il “drammatico risultato di Copenaghen, dove l’accordo è stato concluso senza l’Unione europea, la mancanza di coordinamento degli aiuti ad Haiti, o la spirale discendente nella quale l’Eurozona è precipitata in seguito alle difficoltà fronteggiate dalla Grecia.” E poi continuava, gettando lo sguardo sull’avanzare inesorabile delle nuove potenze: Cina, India, Brasile, Russia. Le economie di questi Stati di dimensioni continentali crescono a ritmi vertiginosi, mentre in Europa si assiste all’insuccesso totale della Strategia di Lisbona che doveva trasformare l’economia dell’Unione, “nell’economia basata sulla conoscenza più competitiva e dinamica del mondo.”

Quali sono le ragioni di questi insuccessi? Secondo Verhofstadt, è il metodo stesso della Strategia di Lisbona ad essere sbagliato, perché rende in pratica “impossibile esercitare una pressione sugli Stati membri”; le istituzioni europee sono ridotte ad un grande “ufficio studi”, mentre il gioco resta nelle mani dei governi dei paesi membri. L’intera Unione europea si limita ad essere una “collezione di amministrazioni nazionali, ben distinte le une dalle altre, ciascuna delle quali deve prima di tutto mettere ordine nei propri affari interni e pretende di decidere su come sia meglio procedere.” Insomma “che si tratti di Haiti, della Grecia o del drammatico esito di Copenhagen, la ragione del fallimento è sempre la stessa: gli Stati membri continuano a mantenere le redini e l’Europa non ha né il potere, né i mezzi necessari per proporre un approccio unico, e ancor meno per imporlo.”

Purtroppo la critica di Verhofstadt si ferma a questo punto. Se la pars destruens della sua lettera è chiara e coerente, la pars costruens, o meglio il progetto politico verso cui dovrebbero indirizzarsi i Capi di Stato e di Governo, non supera le nebulose indicazioni di un “unico governo socioeconomico” e di “più unità e più integrazione” per l’Europa. Nel corso della lettera vi sono altre proposte, ma tutte sono pensate per risolvere questioni contingenti e non si sfiora mai la radice di tutti i problemi: la cessione della sovranità da parte degli Stati membri ad una vera Federazione europea. Se ciascuno paese oggi può mantenere le redini della situazione è semplicemente perché non esiste al momento attuale un altro soggetto superiore che le possa tenere. Questo comporta il fatto, in un’economia globalizzata e interdipendente in cui “avere le redini della situazione” non significa “avere il potere di governare la situazione”, che gli europei siano del tutto inadeguati di fronte alle sfide del nuovo secolo. A livello mondiale contano solo le potenze di grandi dimensioni, che ovviamente impongono le proprie scelte e i propri interessi. L’Europa tornerà ad avere il “potere di governare la situazione”, che corrisponde alla effettiva sovranità, quando gli Stati europei che oggi hanno delle “redini” inutilizzabili trasferiranno ciascuno il proprio monopolio della forza coercitiva in senso lato ad uno Stato federale europeo. In senso lato perché la forza coercitiva non si esprime solo nella forma pregnante del potere militare, ma soprattutto nella forma pacifica e stabile del potere democratico di decisione su ciascuna delle varie materie cedute, nei modi e nelle forme stabilite dalla nuova Costituzione federale. Le materie cedute dovranno essere il potere militare, il controllo della moneta e dei principali strumenti economici, la politica estera e infine il potere giudiziario a garanzia della Costituzione.

Risulta ovvio che una Costituzione non è un Trattato che i singoli Stati si limitano a ratificare con le procedure destinate all’accettazione degli atti di politica internazionale, ma è un atto costitutivo, che per definizione dovrà avvenire fuori dal Trattato di Lisbona. Il vero governo socioeconomico europeo potrà sorgere solo a partire dal momento in cui un patto politico costituente stabilisca in modo definitivo la volontà di milioni di cittadini europei di sottoporsi ad una autorità federale.

Se questo è l’arduo cammino da intraprendere, chi saprà assumersi la responsabilità di farlo? Una nuova compagine statuale nasce di solito tra quegli Stati che hanno raggiunto un elevato grado di coesione e di integrazione in campo economico-istituzionale. In Europa questi Stati sono quelli che hanno avviato e condotto fino ad ora il processo d’integrazione europea, la Francia e la Germania. Non saranno esclusi Benelux, Italia e quanti aderiranno spontaneamente al patto costituente. Questo è quanto Verhofstadt non ha osato dire: purtroppo da uomo delle istituzioni europee rimane incatenato al ruolo che riveste, arrivando persino ad elogiare i nuovi poteri acquisiti dal Parlamento europeo con il Trattato di Lisbona, non riconoscendo invece la loro pochezza rispetto alla piena sovranità ancora in mano agli Stati membri, che la esercitano in tutta la loro pienezza attraverso il Consiglio dei Ministri e il Consiglio europeo.

 

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