Una ventata di ottimismo e una speranza nella democrazia sembrano emergere negli Stati Uniti dopo la vittoria di Barack Obama. L’America ha dimostrato ancora una volta di essere un grande paese e di riuscire a trovare le risorse per reagire anche dopo Il settembre nero della finanza e del credito che ha allarmato l’opinione pubblica e danneggiato l’economia mondiale; e questo in un contesto internazionale dominato dalla globalizzazione che negli ultimi anni ha legato le economie e le società di tutto il mondo in un intreccio quasi inestricabile, evidenziando anche la fragilità delle istituzioni democratiche.

Le radici della crisi in corso sono da ricercare da un lato nelle decisioni di liberalizzare l’economia allentando i vincoli daziari che ne frenavano lo sviluppo – decisioni che hanno dato vita agli accordi del WTO – e dall’altro lato nell’ingresso della Cina e dell’India nell’economia mondiale. Lo sviluppo dell’area asiatica, è stato infatti molto più veloce del previsto perché la regione, per il fatto stesso di rappresentare un mercato di due miliardi e mezzo di persone, è diventata in breve l’area dei maggiori investimenti mondiali.

Il circuito che si è innescato ha visto molti degli introiti di questi paesi, particolarmente della Cina, ritornare negli Stati Uniti sotto forma di buoni del tesoro americani o con partecipazioni o acquisti di attività e imprese americane. Nel giro di pochi anni si è così creato un grande surplus di liquidità negli USA, surplus che, a sua volta, ha favorito la propensione al rischio degli americani e crescenti investimenti, azionari e non – spesso irresponsabili – alimentati dalla prospettiva di facili guadagni. Tutto questo mentre la politica dei bassi tassi di interesse della Federal Reserve induceva le famiglie a chiedere e ottenere prestiti per acquistare beni immobiliari. Così molti mutui sono stati concessi senza garanzie.

Ad aggravare la situazione si sono aggiunti altri due elementi: la deregulation bancaria e la cartolarizzazione dei mutui. La prima ha consentito agli istituti finanziari di operare senza regole e controlli, anche con operazioni senza adeguate coperture. La cartolarizzazione, invece, cioè la cessione di questi crediti anche con l’emissione di obbligazioni, garantite dai grandi enti finanziari, non solo negli USA, ma in gran parte del mondo, ha ingigantito e gonfiato a dismisura la bolla speculativa.

Alla fine, quando molte delle famiglie americane, alle varie scadenze delle rate, non sono state in grado di onorare i loro debiti, tutto il comparto ha incominciato a scricchiolare. Si è arrivati così al fallimento e al conseguente salvataggio di numerose grandi banche da parte del governo americano con ripercussioni, date le interrelazioni, in tutto il mondo e in Europa.

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La decisione del Congresso americano di approvare il piano di salvataggio da 700 miliardi di dollari, proposto da Bush, ha senza dubbio rallentato la crisi, ma non ha ancora generato quel clima di fiducia necessario alla ripresa. La situazione è infatti tuttora caratterizzata da una pericolosa anomalia, costituita dal fatto che la potenza economica e commerciale dominante, cioè gli USA, si trova alle prese con un doppio deficit, quello di bilancio – che è il più alto del mondo e che non verrà certo migliorato dal salvataggio in corso – e quello commerciale, per cui le importazioni superano di gran lunga le esportazioni.

I dati negativi dell’economia reale e l’andamento altalenante delle borse indicano che il nuovo Presidente americano dovrà fare i conti con una recessione del paese destinata a perdurare e ad avere effetti negativi sull’economia globale.

In questa prospettiva, l’Europa, che a sua volta è stata investita pesantemente dalla bolla speculativa che ha provocato il fallimento o il salvataggio di alcuni colossi bancari e assicurativi americani, non si trova sicuramente nelle condizioni per poter eventualmente salvare quelle banche europee che dovessero trovarsi in gravi difficoltà. Queste, infatti, hanno bilanci ormai uguali o a volte addirittura molto superiori a quelli dei singoli Stati, Inoltre, il punto più critico rimane il fatto che, in una simile situazione di incertezza, le banche tendono ad attuare una politica più prudente, con restrizioni al credito per imprese e famiglie, per cui è facile prevedere un generale rallentamento delle economie nel nostro continente.

Inevitabilmente l’Unione europea, che si basa ancora sul coordinamento delle diverse politiche nazionali, e che quindi non è in grado di governare in modo unitario la propria economia e la propria finanza – cosa che richiederebbe strumenti di tipo statuale – rischia di subire drammaticamente i contraccolpi di questa crisi finanziaria e della recessione economica, con pesanti effetti sulla produttività, sulle esportazioni e di conseguenza sull’occupazione e sui consumi.

Osservando gli avvenimenti legati alla partecipazione dei cittadini alle elezioni americane, ci si può rendere conto delle potenzialità che può esprimere un paese che ha la dimensione adeguata per affrontare i problemi. Ci si chiede allora, ancora una volta, perché gli europei, così solerti nell’imitare gli Stati Uniti quando si tratta di liberalizzare gli scambi e nel seguire le loro scelte in politica estera, non siano stati capaci di imitarli nel creare per tempo uno Stato federale di dimensioni continentali.

Certo, alla fine del XVIII secolo è stato più facile unire gli Stati americani che avevano una storia meno travagliata e meno legata alla sovranità nazionale di quella europea. Ma negli anni Cinquanta del secolo scorso alcuni Stati europei, sulla base della riconciliazione franco-tedesca, avevano chiaramente indicato la necessità di dar vita ad un processo di integrazione che sfociasse in una Federazione europea. Si tratta di un aspetto della nostra storia che non può essere misconosciuto, soprattutto dagli Stati fondatori della Comunità europea, e che non dovrebbe essere vanificato per difendere delle sovranità sempre più anacronistiche e messe in crisi dai processi economici e politici mondiali, come anche gli avvenimenti di questi mesi dimostrano. Infatti la Federazione europea – anche partendo, come è inevitabile in questa fase, da un primo nucleo di paesi – con la cessione a livello europeo delle sovranità nazionali nel campo dell’economia, della difesa e della politica estera, e lasciando invariate le specificità nazionali negli altri settori, consentirebbe agli europei di parlare con una sola voce e di garantire la tutela dei loro interessi.

Per ora invece gli europei si sono limitati a fare ricorso al coordinamento non con un vero piano, come quello americano, ma definendo solo degli accordi tra Stati che restano molto indefiniti sulla carta per quanto riguarda l’impegno di ciascun paese per il salvataggio delle proprie banche in difficoltà. C’è da augurarsi che questo basti, e soprattutto che la crisi rallenti grazie agli interventi delle grandi potenze mondiali, perché per noi esiste il rischio reale e drammatico di alimentare, in queste condizioni, la disunione europea e di mettere addirittura a rischio l’esistenza dell’attuale Unione monetaria. L’ora della scelta tra unità o divisione sembra quindi avvicinarsi per il nostro continente; spetta anche a noi cittadini vigilare che le nostre classi politiche siano pronte a fare la scelta giusta.

 

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