La crisi finanziaria ed economica che ha investito l’eurozona ha messo in luce la contraddizione di aver creato una moneta senza Stato. I governi europei più responsabili e le stesse istituzioni europee hanno dovuto prendere coscienza del fatto che l’unione monetaria, costruita mantenendo la politica economica a livello esclusivamente nazionale, senza un budget ad hoc indispensabile per istituzionalizzare la solidarietà tra i partner e per avere risorse disponibili per politiche di investimenti e di sviluppo, senza un meccanismo unico di sorveglianza delle banche e senza un fondo di salvataggio europeo per il sistema bancario, senza un sistema di governo legittimato democraticamente a livello europeo, non può funzionare.

E’ da questa consapevolezza che nasce il Blueprint della Commissione europea ( “Un piano per un’Unione economica e monetaria autentica e approfondita), reso pubblico il 28 novembre del 2012. Questo documento della Commissione era stato preceduto pochissime settimane prima dal cosiddetto Documento dei Quattro presidenti (Mario Draghi per la BCE, José Manuel Barroso per la Commissione europea, Hermann Van Rompuy per il Consiglio europeo e Jean-Claude Juncker per l’Eurogruppo) che aveva anticipato la stessa analisi e iniziato a porre alcuni dei problemi fondamentali per il completamento dell’unione monetaria. In questo quadro, il Blueprint segna un momento di forte accelerazione nel processo di integrazione politica indicando una vera e propria road map per traghettare l’Unione monetaria attraverso le cosiddette Quattro unioni (bancaria, fiscale, economica e politica), necessarie per completare il progetto della moneta unica. Nel documento sono indicate anche delle ipotesi temporali e le procedure consigliate: alcuni cambiamenti nel sistema europeo necessari per la realizzazione delle diverse unioni potranno infatti essere introdotti senza modifiche dei trattai, ma le riforme più incisive avranno invece bisogno di un vero e proprio processo costituente.

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La prima delle quattro unioni, quella bancaria, ha iniziato subito ad essere discussa nel corso del 2013, e la prima fase, quella del meccanismo unico di sorveglianza europeo, in capo alla BCE, sta già per diventare operativa; in questo modo è stato stabilito il principio del controllo comune del sistema bancario che, con la creazione della moneta europea, non può più permettersi di essere ancora nazionale. Nel Consiglio del dicembre 2013 è stata poi discussa un’altra tappa importante, e si è trovato un accordo sulla questione (molto controversa) della mutualizzazione dei rischi (in base al quale il problema rappresentato da una banca in difficoltà non ricade più sul paese in cui tale banca ha sede, ma viene condiviso da tutti i partner dell’eurozona); accordo sancito con la nascita del nuovo meccanismo per il salvataggio delle banche. Anche questa è una decisione cruciale, perché rappresenta la condizione necessaria per trasformare l’attuale realtà frammentata del sistema bancario europeo in un insieme unitario, e perché spezza il legame tra banche e debiti sovrani, che tanto ha pesato nell’approfondimento della crisi. E’ vero, al tempo stesso, che l’unione bancaria, di per sé, da sola non basta a risolvere i problemi dell’unione monetaria, né è pensabile che possa funzionare in modo completo senza ulteriori avanzamenti immediati anche nelle altre unioni (in particolare, in assenza di un bilancio di tipo federale e un di Tesoro europeo a livello dell’eurozona); ma questo non toglie che i passi compiuti siano molto importanti e, soprattutto, siano indirizzati nella giusta direzione, perché costituiscano un trasferimento di potere decisionale e di sovranità, dai governi nazionali al livello europeo, cui pochi credevano prima che fosse trovato l’accordo.

Il Consiglio di dicembre, inoltre, ha anche discusso dell’avvio di un sistema di accordi contrattuali reciprocamente concertati e dei meccanismi di solidarietà correlati nell’ambito dell’eurozona. In pratica significa che i paesi dell’euro dovranno iniziare a concordare con i partner e con la Commissione europea le linee fondamentali della loro politica economica (sinora solo le politiche di bilancio, ossia i “conti” dello Stato, erano sottoposti a vincoli e controlli). Questo implica che le politiche economiche non saranno più prerogativa assoluta degli Stati, come è stato finora, ma che la qualità dello sforzo per le riforme e la crescita del paese nei settori strategici sarà monitorata in comune a  livello europeo, con possibilità di intervento e sanzioni da parte della Commissione europea nella misura in cui un paese si sottrarrà agli obiettivi comuni. In cambio, e questo è il punto maggiormente in discussione, i paesi che dovranno affrontare le riforme più complesse (come il nostro) avranno a disposizione degli incentivi e dei finanziamenti garantiti dai partner.La questione dovrebbe essere tranciata al Consiglio europeo nella riunione dell'ottobre del 2014 “nella prospettiva di giungere a un accordo complessivo su entrambi gli elementi”. Il negoziato si annuncia difficile, perché si tratta di un passaggio in cui vengono al pettine tutte le questioni controverse che bloccano gli Stati: la paura di perdere la propria sovranità da parte dei paesi più fragili, il rischio, viceversa, che paventano i paesi del Nord di creare le condizioni per il (già più volte sperimentato) moral hazard (gli Stati più deboli che approfittano dell’aiuto dei paesi più solidi per evitare di fare le riforme e le buone politiche); e poi il timore di avventurarsi in una modifica dei trattati che in alcuni paesi deve essere sottoposta a referendum e che si teme possa sfuggire di mano (specie in Francia), le difficoltà legate alla necessità di armonizzare il quadro dell’Unione con quello più ristretto dell’eurozona nel momento in cui questa si trasformasse in un’unione economica e politica. Tuttavia, alla fine un accordo dovrà essere trovato, perché si tratta di un passaggio che costituisce, ancora una volta, una condizione indispensabile per la sopravvivenza dell’euro. Da un lato è necessario che si creino, come chiede la Germania, dei vincoli di politica economica capaci di far convergere gli standard di competitività di tutti i paesi euro, anche dei più deboli. Al tempo stesso, la richiesta, in particolare del precedente governo italiano (si veda a questo proposito “Impegno Italia”, il programma presentato da Letta alla vigilia del cambio di governo) e di quello francese, di creare una capacità finanziaria autonoma dell’eurozona con la quale incentivare le economie dei paesi membri (creando quindi meccanismi di solidarietà correlati agli accordi contrattuali) è altrettanto giusta, perché solo costruendo una capacità di redistribuzione a livello europeo, collegata ad un potere di intervento politico, si può spezzare il circolo vizioso dell’austerità senza crescita.

Il nodo di fondo da sciogliere è quindi quello della creazione di una capacità fiscale autonoma dell’eurozona, con cui giungere ad alimentare un bilancio aggiuntivo che non sia il frutto di semplici trasferimenti da parte degli Stati (e che quindi non si traduca, come accade ora, in un meccanismo di solidarietà in ultima istanza “orizzontale”, tra Stati sovrani); ma che coinvolga direttamente i cittadini grazie all’introduzione di un’imposta europea. Il passaggio ulteriore necessario è che i parlamentari europei dell’eurozona (nei modi che lo stesso Parlamento europeo potrà stabilire, se vorrà impegnarsi a farlo: tramite una commissione ad hoc composta da parlamentari dell’eurozona, oppure operando in composizione ristretta, o in base a qualche altra ipotesi analoga che potrà essere indicata), si esprimano sulle entrate fiscali e sul contenuto degli “accordi”.

Il problema ormai sul tappeto della creazione di un bilancio autonomo dell’eurozona è quindi lo snodo attraverso cui entrano in campo le altre “unioni” indicate dal Blueprint della Commissione, i cui tempi di preparazione ed entrata in vigore si annunciano però necessariamente più rapidi e ravvicinati di quanto la Commissione stessa non avesse previsto. Non è un caso che in questi ultimissimi mesi si siano susseguite dichiarazioni importanti in questo senso sia della cancelliera Merkel, sia del presidente francese Hollande, sia da parte di Letta quando guidava il governo (e anche l’attuale governo sta iniziando a cogliere il tipo di sfide che attendono l’Italia per la costruzione di un sistema europeo più efficace e più solidale); e poi da parte di importanti esponenti della Commissione europea (in particolare della vice-presidente Viviane Reding), da gruppi politici trasversali e think thank influenti, in particolare in Francia, Germania e Belgio. Insomma, una molteplicità di prese di posizione sintomatiche del clima che si respira in Europa.

Tutto questo in Italia non è invece oggeto di dibattito, non solo a livello dei mezzi di informazione ma neppure tra gli analisti politici e i centri studi. Eppure, il nostro paese, che appartiene al gruppo dei fondatori e che è la terza economia dell'eurozona, storicamente ha sempre avuto un ruolo importante in ogni fase del processo di integrazione. Se anche oggi fosse in grado di svolgere un ruolo simile potrebbe fare molto per spostare l’ago della bilancia a favore dell'unione politica, proprio attraverso la questione dei meccanismi di solidarietà e il problema di una fiscalità autonoma a livello della zona euro.

Anche sotto questo aspetto, il segnale che i cittadini lanceranno alle elezioni europee sarà importante: mandare al prossimo Parlamento europeo individui responsabili e pronti a prendere in seria considerazione le sfide che attendono l’eurozona, sarà decisivo. Il prossimo Parlamento europeo sarà infatti determinante per la conclusione positiva di quel processo di completamento dell’unione monetaria da cui dipende il futuro di tutti gli europei.

 

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