Il primo dicembre entrerà finalmente in vigore il Trattato di Lisbona, frutto di un’estenuante processo di negoziazione e di ratifica che ha visto impegnata l’Unione europea per più di otto anni. Cosa cambia per l’Europa a partire da questa fatidica data? Sotto molti aspetti la risposta che sorge spontanea è: niente. Questo Trattato, infatti, cerca di regolare, e suggella, l’Unione europea come è già strutturata, senza introdurre sostanziali innovazioni, limitandosi ad operare delle razionalizzazioni di cui l’Unione europea, cresciuta tumultuosamente in questi ultimi anni, ha sicuramente bisogno: innanzitutto definisce con maggiore chiarezza la ripartizione delle competenze tra l’Unione e i paesi membri, definendo con maggiore precisione i confini entro i quali deve rimanere la prima e accrescendo i poteri di controllo sulle istituzioni europee dei secondi. Semplifica il meccanismo di voto nel Consiglio e ne accresce il ruolo, confermando la natura intergovernativa dell’Unione (non compensata dall’aumento del potere di codecisione del Parlamento europeo, perché gli equilibri di potere sono tali da mantenere quest’ultimo sempre in posizione politicamente subordinata), e crea la figura di un Presidente stabile per due anni che permetterà una migliore gestione dei dossier e in generale del funzionamento della macchina del Consiglio. Accresce infine il prestigio dell’Alto rappresentante per la politica estera e di sicurezza, che, diventando Vicepresidente della Commissione e membro del Consiglio europeo, formalmente avrà maggiore controllo sui servizi attivi nelle relazioni esterne dell’Unione – anche se, al tempo stesso, resterà sempre subordinato a ventisette politiche estere e di sicurezza nazionali, generalmente divergenti, come lo è l’attuale Alto rappresentante (di cui infatti solo gli addetti ai lavori conoscono, e spesso lamentano, l’esistenza). Infine semplifica in alcuni settori le cooperazioni rafforzate, che comportano la possibilità per gli Stati che lo vogliono, dopo lunghe e complicate procedure, di procedere in alcune materie anche senza che tutti gli altri membri partecipino. Si tratta del punto forse più interessante, anche se non del tutto nuovo, che denuncia il problema reale dell’impossibilità di progredire nell’integrazione a Ventisette: ma la formula mantiene il difetto di concepire tali cooperazioni solo su singole materie, spegnendone così il potenziale politico, e in più facendo riferimento ad un quadro puramente intergovernativo, che implica che si ricada esattamente nella stessa logica di confronto tra interessi nazionali eterogenei che caratterizza e blocca l’intera Unione.

Detto questo, bisogna aggiungere che il Trattato di Lisbona, proprio per la sua natura “razionalizzatrice” del sistema esistente, “fissa” la natura di questa contraddittoria Unione (che tenta invano di conciliare grandi velleità anche di natura politica – come quello di rappresentare un nuovo modello di democrazia sovranazionale fondata non più sui processi democratici dal basso ma sui “risultati” in favore dei cittadini – con un rinascente e inarrestabile nazionalismo) e garantisce che nulla si muoverà più per almeno una decina di anni nel cantiere europeo: da un lato a causa dell’esperienza drammatica di questo ultimo periodo, che ha visto crescere in modo esponenziale la litigiosità tra i paesi membri, la difesa ad oltranza da parte di ciascuno del proprio interesse nazionale e la crescente disaffezione dell’opinione pubblica nei confronti di un progetto sentito come sempre più lontano dagli ideali iniziali e sempre meno capace di garantire il benessere e il futuro dei cittadini; dall’altro per la consapevolezza da parte dei governi che non esiste il consenso tra i paesi membri per fare nessun ulteriore passo nel senso del trasferimento di competenze, o politiche, o “poteri” a livello europeo, e che l’apertura di qualsiasi negoziato equivarrebbe ormai ad un suicidio per l’Unione.

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Che considerazioni si possono trarre da tutto ciò? La prima è che se l’Unione non è in grado di progredire in un prossimo futuro, il processo di deterioramento della situazione europea invece nel frattempo avanza: a fronte di un continuo ed evidentissimo indebolimento dello spirito europeista dei paesi tradizionalmente favorevoli (e di una maggioranza di membri ormai ostili al progetto di un’Europa unita politicamente), il nazionalismo (anche nella forma del micronazionalismo) riprende vigore nel nostro continente, in molteplici – ma sempre incivili – forme; la democrazia è ormai in discussione in alcuni Stati membri e, in generale, è sempre più svuotata di sostanza, e tra i cittadini cresce la disaffezione verso le istituzioni e la politica. La crisi finanziaria ed economica ha impoverito i nostri paesi e la difficoltà dei nostri Stati a reggere il confronto con le potenze emergenti mette a rischio la coesione sociale ed il modello di protezione costruito negli ultimi decenni. Gli europei non hanno nessun peso nella politica internazionale e sono spettatori passivi del riequilibrio dei poteri in atto a livello mondiale: rappresentano un vuoto politico che altri si preoccupano di riempire e sono per molti aspetti in offerta al miglior acquirente. Tutto ciò a causa della loro divisione, che non hanno per il momento nessuna intenzione di superare e cui si illudono di poter ovviare con le attuali istituzioni europee; le quali, frutto di un processo, spesso glorioso di quasi sessant’anni, non sono però, oggi, in grado di invertire il trend della progressiva scomparsa degli europei dalla scena politica globale e della loro emarginazione anche in campo economico, nonché di eliminare il rischio che, sotto la spinta delle contraddizioni, la stessa Unione europea imploda.

La seconda considerazione riguarda infatti proprio il futuro dell’Unione europea. Molti pensano che, una volta acquisito il nuovo Trattato, sarà possibile avviare politiche più incisive in campo economico e della politica estera e di sicurezza, per dare risposte concrete alle richieste dei cittadini, interessati ai fatti e non alle “alchimie“ istituzionali. Purtroppo, è evidente che si tratta di un’illusione: la ragione per cui non riusciamo a superare la contraddizione tra il mantenimento di anacronistiche (e nefaste) sovranità nazionali e l’evidente necessità di trasferire a livello europeo limitati ma precisi poteri (con i relativi strumenti per renderli effettivi) in alcuni settori chiave (quelli, appunto, della politica estera e di sicurezza, della politica fiscale e di quella economica) è che non esiste da parte degli Stati la volontà politica di farlo. Non sarà quindi sicuramente la razionalizzazione degli assetti consolidati contenuta nel Trattato di Lisbona che renderà possibile il miracolo. Come ha ricordato recentemente il Presidente Ciampi in un intervento pubblicato su Il Messaggero il 10 novembre scorso, gli Stati europei, vent’anni fa, con la caduta del muro di Berlino e dell’Unione sovietica hanno rinunciato anche al sogno degli Stati Uniti d’Europa e hanno fatto la scelta politica di affrontare l’inevitabile allargamento con una fragile costruzione europea in fieri, che è stata così trasformata, e diluita, dal nuovo corso e dai nuovi ingressi. E’ stata una grande vittoria degli euroscettici, Gran Bretagna in testa, che ha segnato una svolta radicale in seguito alla quale è iniziato un processo di rinazionalizzazione nell’edificio comunitario ed è stata abbandonata la prospettiva sovranazionale.

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Che prospettive ci sono perché questa deriva si interrompa e l’Europa torni ad essere il grande progetto politico rivoluzionario che ha animato la migliore cultura e la migliore politica del nostro continente sin dal dopoguerra? Recentemente la Corte costituzionale tedesca, chiamata a dare il proprio parere sulla possibilità che le nuove competenze previste dal Trattato di Lisbona svuotassero di contenuto i principi democratici sui quali si fonda l’ordinamento tedesco e privassero i cittadini del potere di influire sulle scelte determinanti per il loro futuro, ha ribadito che questo pericolo non sussiste per il fatto che il nuovo Trattato non cambia la natura dell’Unione, la quale rimane un’organizzazione internazionale fondata sull’accordo tra Stati sovrani ed agisce nei limiti delle competenze che le sono attribuite da questi ultimi (sottolineando che comunque si sono raggiunti i limiti entro i quali la Germania deve attestarsi nell’attribuire tali competenze per non andare ad intaccare il nocciolo della sovranità del popolo tedesco). La Corte ha inoltre sottolineato che, se, da un lato, nell’assetto europeo attuale, gli Stati restano “i padroni dei Trattati”, dall’altro, nella misura in cui si vogliono attribuire all’Unione competenze che toccano il cuore dello Stato, si deve procedere alla trasformazione dell’Unione in un vero Stato federale, mediante un atto di volontà politica esplicito ed una procedura costituente che abbia il consenso dei popoli coinvolti al fine di rifondare a livello europeo il patto fondamentale su cui si basa la convivenza civile.

Ciò che quindi la Corte costituzionale tedesca conferma è che è impossibile un’evoluzione graduale dell’Unione europea in senso federale, sulla base dello sfruttamento dei meccanismi impliciti nei Trattati; se si vuole un’unione politica bisogna affrontare il nodo della statualità e agire al di fuori dei Trattati vigenti.

Se quindi gli Stati europei vorranno interrompere la deriva verso il degrado in cui sono trascinati, i paesi tradizionalmente più europeisti, Francia e Germania, ma anche Italia, in testa, dovranno innanzitutto ritrovare la volontà politica per dar vita ad uno Stato federale europeo, aperto a quanti vorranno aderirvi, prendendo coscienza, sia a livello di classe politica sia di cittadini (che già dimostrano, comunque di continuare ad essere favorevoli al progetto dell’unità politica dell’Europa, e quindi di essere più avanti sotto questo profilo rispetto alle classi politiche che li rappresentano) che il mantenimento dello status quo equivale alla morte dell’Europa.

 

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