Perché puntare sui sei paesi fondatori della Comunità europea? Questa domanda, del tutto legittima, ne contiene in sé molte altre: perché, per fondare lo Stato federale europeo, puntare inizialmente solo su un gruppo ristretto di Stati fra i tanti oggi quindici, fra poco venticinque aderenti all’Unione europea? Perché, ad esempio, non puntare almeno su tutti i dodici paesi aderenti all’euro? E, ammesso che sia davvero necessario un piccolo nucleo-pilota, perché volerlo individuare a priori? E perché proprio Francia, Germania, Italia, Belgio, Olanda e Lussemburgo? Perché non proporre semplicemente “federazione tra chi ci sta”? E infine: quale speranza di adesione a uno Stato federale europeo si può riporre nell’Italia di oggi? Sono quesiti che numerosi militanti federalisti e vari europeisti si pongono, di fronte alla campagna da poco iniziata e rivolta ai Sei perché diano vita al primo “nucleo federale”. Quesiti che forse tutti ci siamo posti, anche quanti abbiamo poi valutato e capito che occorreva lanciarsi, senza indugio, in un’azione di questo tipo. Vediamo dunque di spiegare, rispondendo a quelle domande.

1. “Federazione tra chi ci sta”? La formula può apparire suggestiva e ragionevole: in realtà è inconsistente e rischiosa. “Chi ci sta” a fare che cosa? Lo Stato federale, o quella finta Federazione di cui parlano i suoi nemici? “Chi ci sta” lo si può verificare solo in presenza di un progetto chiaro e forte che un gruppetto di Stati, ben determinato, abbia già messo a punto almeno nei tratti essenziali, essendo deciso a porlo in atto comunque e senza cedere a compromessi. Viceversa, se non è proposto da subito un progetto ben definito e nettamente federale, è facile che chiedano di aggregarsi alla sua elaborazione paesi non disponibili a trasferimenti di sovranità, solo per non star fuori dal gruppo-pilota e per frenarne la spinta federalista: e l’impresa sarebbe morta sul nascere.

Non dimentichiamo che in questi ultimi due anni si è verificato nel dibattito europeo un profondo stravolgimento della stessa parola Federazione, usata disinvoltamente dal fronte contrario all’unificazione federale – un fronte ampio e influente anche dentro la Convenzione – per indicare una semplice associazione di Stati sovrani. Questo è avvenuto grazie anche alla pavidità di molti europeisti, timorosi di usare la parola netta e forte – la parola Stato –, la sola che racchiude la risposta alle urgenze che premono sull’Europa e al bisogno di uscire dall’attuale situazione di stallo e di decadenza. La sola, oggi, non ambigua.

2. I dodici dell’euro? Per vari aspetti, parrebbe la soluzione più ovvia. Moneta unica e Banca centrale europea sono elementi più confacenti a uno Stato federale che a un gruppo di Stati che conservano sovranità nella politica economica e di bilancio, ossia nei settori più legati alla politica monetaria. La scelta federale sarebbe, per tutti i dodici, la più logica conseguenza della raggiunta unione monetaria. Ma molti di questi paesi non sono maturi, non hanno una classe politica e un’opinione pubblica preparate, né una tradizione di presenza federalista incisiva. Inoltre, oggi che il problema-chiave, più ancora del governo europeo dell’economia, è quello dell’unità di politica estera e di sicurezza (unità federale, ovviamente: se no, è pura illusione), alcuni Stati dell’area euro hanno un ostacolo oggettivo: la loro

posizione di neutralità dichiarata e in parte codificata li tiene ovviamente fuori da ogni progetto che rischi di metterla in forse. Solo l’evolversi del quadro europeo e mondiale a seguito dell’apparire di uno Stato federale europeo, fattore oggettivo di equilibrio e di pace, potrà consentire loro di superare l’ostacolo.

3. Il nucleo ristretto. Dunque, solo un gruppo piuttosto ristretto di paesi può ragionevolmente fondare il primo nucleo dello Stato europeo: questa necessità è chiara da tempo a quanti, tra i federalisti come nella classe politica, non hanno rinunciato all’idea di portare a compimento l’integrazione europea, ossia di giungere all’unità federale. I motivi sono evidenti. Il progressivo ampliarsi della costruzione comunitaria, dai Sei fondatori ai nove e poi ai dodici fino agli attuali quindici, ha portato nell’edificio europeo Stati e popoli che ne hanno visto i vantaggi economici e ignorato il grande obiettivo politico. È significativo che via via dopo questi allargamenti i passi importanti – in particolare l’elezione popolare del Parlamento e la moneta unica: ossia i passi di carattere pre-federale – sono stati promossi dai paesi storicamente più legati al progetto iniziale; gli altri li hanno inizialmente osteggiati e poi accettati, magari standosene fuori (vedi euro). Così si è proceduto solo grazie alla determinazione di un nucleo centrale.

Non a caso il rilancio del progetto federalista da parte della Germania nel ’94 (documento Lamers-Schaeuble) parlava di un nucleo ristretto; e l’analoga proposta Fischer del 2000 prevedeva un gruppo-pilota, un’avanguardia di paesi. Nella stessa linea si è espressa più volte la classe politica francese, sebbene più incerta e divisa sullo sbocco federale.

Ebbene, ora più che mai è evidente che solo un gruppo ristretto e relativamente omogeneo di paesi, con una tradizione europeista, con opinioni pubbliche abbastanza preparate e disposte, possa imboccare la via coraggiosa e ardua del salto federale: che non sarà cosa da poco, sarà il passaggio più grande e difficile, una svolta nella storia d’Europa. Persino Prodi, solitamente legato per il suo ruolo istituzionale al quadro dei quindici e alla prospettiva dei venticinque, parlando in ottobre a Bologna a un convegno promosso dall’Istituto Affari Internazionali ha indicato la necessità di un “nucleo politico”, di “un’avanguardia dell’Europa composta da alcuni paesi”.

4. Perché i Sei. Partiamo da una constatazione evidente, persino ovvia. Il nucleo deve necessariamente avere il suo perno in un’intesa franco-tedesca: l’integrazione europea è nata da questa intesa e non ha fatto un solo passo avanti, in mezzo secolo, se non sulla base di tale intesa. Questo non significa ignorare il ruolo dell’Italia, spesso determinante sul piano delle proposte e sempre presente, finora, nel momento delle decisioni: ma senza l’appoggio franco-tedesco anche le migliori iniziative italiane sarebbero cadute nel vuoto. Oggi, se Francia e Germania lanciassero una proposta federalista, o comunque tale da aprire un percorso in quella direzione, sicuramente i paesi del Benelux – Belgio, Olanda, Lussemburgo – aderirebbero. Ma un nucleo siffatto, senza l’Italia, sarebbe probabilmente un po’ inadeguato come peso economico-politico all’interno dell’Unione europea e come capacità di attrazione sugli altri Stati membri (non va dimenticato che il nucleo deve essere una “avanguardia”, capace di attrarre, una volta dimostrata la sua vitalità, un numero via via crescente di paesi, fino a raggruppare, forse, tutti gli Stati dell’Unione).

Ecco perché spingere sui Sei, richiamarli alle loro responsabilità storiche, porre sotto accusa la classe politica che ha messo in soffitta il progetto dei padri fondatori – i quali avevano ben chiaro l’obiettivo della Federazione – e non sfrutta quella disponibilità al salto federale che è ancor viva in larga parte dei cittadini. Unendosi, i Sei aprirebbero un futuro all’Europa tutta. Rinunciandovi, condannano i propri paesi e l’intero continente alla decadenza e al vassallaggio: cose che già stanno avvenendo e che tocchiamo con mano.

Un fatto in sé piccolo, ma significativo, è che, parlando di alcuni problemi oggi sul tappeto (quale presidenza dare all’Unione; come eleggere il presidente della Commissione europea), il primo ministro francese Raffarin, in successivi incontri dello scorso settembre con il premier belga Verhofstadt, con Prodi, con la stampa, ha parlato della necessità di un confronto a Sei per cercare una linea comune. Se questa intesa a Sei è sentita necessaria per scelte tutt’altro che decisive, a maggior ragione apparirà essenziale per il salto federale.

5. Perché puntare anche su “questa” Italia. Certamente l’Italia d’oggi, rispetto ai decenni precedenti, è assai meno affidabile sul piano dell’edificazione dell’Europa. Da alcuni uomini di governo sono emerse proposte di accentuazione del carattere intergovernativo dell’Unione e addirittura di ritorno all’antica politica di accordi bilaterali fra gli Stati! Anche l’opposizione, in tutt’altre faccende affaccendata, non brilla per attenzione alle sfide europee né per lucidità e coraggio propositivo. Basti ricordare che alcune personalità della sinistra hanno teorizzato la “bella novità” di fare una Costituzione senza Stato! Non mancano peraltro, nell’uno e nell’altro schieramento, eccezioni positive.

Comunque sia, l’Italia è uno dei paesi fondatori e deve essere inclusa nell’azione dei federalisti. E se un’iniziativa franco-tedesca, sostenuta dal Benelux, mettesse la classe politica italiana di fronte alle sue responsabilità e l’opinione pubblica davanti a una scelta decisiva per il futuro stesso del paese, il quadro potrebbe cambiare di colpo, vuoi con un’adesione bipartisan al rilancio europeo (possibile però solo neutralizzando i gruppi antieuropei, forti soprattutto nel centrodestra), vuoi con una crisi e nuove elezioni (dove chi sta per l’Europa, vince, come si è visto nel ’96). Impensabile che l’Italia se ne stia fuori tranquillamente e senza sussulti. “L’Italia è sempre rimasta nel gruppo di avanguardia degli Stati che hanno creduto all’integrazione”, ha detto il Presidente Ciampi il 16 ottobre parlando ai giovani a Bruges, aggiungendo: “la presenza in questa avanguardia esprime il modo di essere dell’Italia in Europa”.

 

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