"Il successo dell'unione monetaria dipende in definitiva dal prendere atto che condividere una moneta unica è un'unione politica, e significa assumerne fino in fondo le conseguenze".
Il monito di Mario Draghi (La stabilità e la prosperità nell'Unione monetaria, Università di Helsinki, 27 novembre 2014), non potrebbe essere più esplicito. Gli Stati europei, con il Trattato di Maastricht, hanno deciso di condividere la sovranità monetaria. Si è trattato di una scelta precisa. Non è un caso che i paesi più euroscettici l'abbiano rifiutata. E ora gli Stati che condividono la moneta non possono ignorarne le conseguenze.

Il giudizio di economisti, esperti politologi, politici del mondo extra-europeo è unanime: l'eurozona è bloccata per colpa della carenza della sua governance: "If Europe were a single country with a single, credibile government, the answer (to the crisis) would be simple." (Reforms, Investment and Growth: An Agenda for France, Germany and Europe, Report to Sigmar Gabriel and Emmanuel Macron by Henrik Enderlein and Jean Pisani-Ferry). O, come dice sempre Draghi, "nell'area euro, le scelte di politica economica sono così interdipendenti che, in ultima istanza, la sovranità sulla politica economica dovrebbe essere esercitata congiuntamente. Per questo, a mio parere, dobbiamo condividere ulteriormente la sovranità in questo campo. Questo si potrebbe tradurre nel passaggio da un sistema di regole comuni ad uno basato su istituzioni comuni" (Introductory remarks at the Finnish parliament, Helsinki, 27 novembre 2014).

Eppure, né i moniti istituzionali o le analisi degli esperti, né la crisi - che pure ha costretto gli Stati ad ulteriori, reciproche, cessioni di sovranità per poter sopravvivere - riescono a spingere i paesi dell’eurozona a fare il salto di qualità necessario. Gli europei stanno pagando un prezzo altissimo per il rifiuto degli Stati di creare un governo europeo dotato di poteri reali e per la loro pretesa di gestire l'unione monetaria sulla base del coordinamento dei diversi interessi nazionali e della ricerca del compromesso, che impedisce di avere come obiettivo il bene comune. La mancanza di volontà politica continua a bloccare la possibilità della soluzione e l’attaccamento al potere nazionale continua a prevalere.

Nel frattempo, il tempo per fare la scelta europea si sta sempre più assottigliando. La crisi mina il consenso verso l’Europa, preparando alternative drammatiche; e il quadro mondiale che si va delineando diventa sempre più minaccioso. La trappola della stagnazione è solo una delle due facce della medaglia. L'altra è quella della continua marginalizzazione nel quadro della politica internazionale, dove si preparano tensioni per noi pericolosissime, con l'instabilità delle regioni che ci circondano che ci carica di emergenze e problemi che, divisi, ci travolgono; con la progressiva regionalizzazione delle aree commerciali che si salda con gli interessi geopolitici sempre più divergenti dei giganti della politica mondiale, e rispetto alla quale, divisi e privi di una politica estera unica, noi siamo impotenti e perciò destinati ad essere vittime. Se l'eurozona non cresce e soffre, non è solo perché, costretta nelle regole, non riesce a fare le politiche economiche giuste. È anche perché senza l'unione politica non si riesce a rispondere a nessuna delle sfide interne ed esterne: né a quelle sociali ed economiche legate all'invecchiamento e al calo della popolazione o all'esigenza di rivedere il modello di sviluppo, né a quelle poste da un mondo in subbuglio, privo di leadership, che, in più, si avvia alla seconda rivoluzione digitale e si prepara a confrontarsi con i suoi effetti dirompenti.

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Che fare, allora?

Come federalisti europei continuiamo a cercare di dare voce alla lampante verità dell’urgenza indifferibile del salto politico federale, e a cercare di mobilitare a questo scopo il consenso verso questo progetto, consenso che rimane diffuso, pur essendo sempre più frustrato dall’inerzia di chi detiene il potere di imprimere la svolta. Siamo in sintonia non solo, come già ricordato, con economisti e rappresentanti delle istituzioni europee, ma persino con gli stessi esponenti dei governi nazionali: Schaeuble, poche settimane fa, in occasione della Conferenza europea dei banchieri a Francoforte, ha sostenuto pubblicamente che l’Europa deve “cambiare urgentemente i trattati”, almeno per l’eurozona, perché serve un rafforzamento della governance economica. E Carlo Padoan, intervenendo in Aula al Senato, in occasione della Conferenza degli organi parlamentari specializzati per gli Affari europei, ha sottolineato che “la crisi europea sollecita maggiore integrazione, ci sono altri elementi oltre all’unione monetaria: l’unione dei mercati dei capitali e più in là forme realizzabili di unione fiscale che implica cessioni di sovranità”.

Ma parole e consenso diffuso non bastano se non servono a creare le istituzioni capaci di rendere irreversibile ed automatica la convivenza solidale tra europei. Occorre, allora, cercare di individuare un punto preciso, ma decisivo, su cui far leva per cambiare gli equilibri. Riprendendo l’insegnamento di Monnet nel suo Memorandum del 1950: “nella situazione attuale del mondo, da qualunque parte ci si volga non si incontrano che dei vicoli ciechi... Da una situazione simile si può uscire in un solo modo: con una azione concreta e risoluta su un punto limitato ma decisivo, che provochi un cambiamento fondamentale su questo punto e modifichi progressivamente i termini stessi dell’insieme dei problemi”.

Oggi, questo punto è quello dell’unione fiscale dell’eurozona, nel senso della creazione di un bilancio ad hoc, aggiuntivo rispetto all’attuale bilancio dell’Unione, e dotato di risorse proprie che, comunque si decida di reperirle, non siano il frutto di accordi tra i governi, ma di riallocazioni decise dai parlamenti nazionali insieme a quello europeo, e siano gestite direttamente a livello europeo, in modo da iniziare ad avere politiche genuinamente sovranazionali e da poter quindi avviare la nascita di un governo politico federale. Senza questo strumento l’Europa è bloccata. Neppure il massimo dello sforzo da parte delle istituzioni europee, come è il caso del Piano Juncker, può essere qualcosa di più di un tentativo di guadagnare tempo, di dare un minimo di ossigeno all’Europa in attesa di cambiare davvero la situazione. Né sono un’alternativa l’allentamento dei vincoli sui bilanci nazionali, che rischiano di essere un boomerang che abbassa la fiducia nella tenuta dell’eurozona e che quindi rischiano persino di aggravare la situazione.

Gli strumenti giuridici da utilizzare per avviare la nascita di questo bilancio, o fondo, ad hoc, prima di affrontare la revisione dei trattati sono stati analizzati e spiegati in decine di studi. E le occasioni per avviarne la costruzione possono essere molteplici. Tante proposte sul tappeto indirizzano verso questo sbocco, perché richiamano la necessità di fondi ad hoc di natura federale: nel campo della creazione di strumenti di solidarietà sociale (come gli ammortizzatori per la disoccupazione, o le agenzie europee per il lavoro, per organizzare la mobilita dei lavoratori), o per alimentare un New Deal europeo che abbia davvero una funzione di leva costituente e possa realmente cambiare il volto dell’Europa.

La cosa importante è che tutte le forze che credono nel progetto dell’unione politica federale dell’Europa concentrino gli sforzi verso questo obiettivo: lo si può perseguire attraverso molte vie, ma tutte devono mirare e portare alla nascita di questa unione fiscale dell’area euro, che è già unione politica. L’errore è disperdersi continuamente in alternative deboli che non portano le forze sul terreno decisivo, mentre l’Europa rischia di essere inghiottita per sempre dalla propria impotenza.

 

 

 

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