Il 12 ottobre, Guy Verhofstadt ha presentato al Bozar, a Bruxelles, il suo nuovo libro, per ora disponibile solo in fiammingo, La malattia dell’Europa, e la riscoperta dell’ideale. Si tratta di un testo in cui l’ex premier belga, attualmente parlamentare europeo nel Gruppo dei liberali (ALDE) e uno dei rapporteur alla Commissione del PE per gli Affari costituzionali (AFCO), presenta la sua proposta per riformare l’Unione europea e per riportarla all’originario progetto politico dei padri fondatori.

La presentazione sembra l’occasione per Verhofstadt per scendere in campo e avviare il lancio del suo progetto, che è alla base del rapporto che sta ultimando in AFCO; un rapporto che presenta, per la prima volta dai tempi del Trattato Spinelli del 1984, una riforma radicale dei Trattati per dar vita ad un governo federale dell’Europa. Il testo, di cui i federalisti hanno avuto alcune anticipazioni, si propone di ridisegnare il sistema di governo europeo, iniziando innanzitutto a mettere fine all’attuale Europa à la carte e distinguendo due (e solo due) chiare categorie di membri: i full members, ossia i paesi che partecipano a tutte le politiche europee (dall’euro, a Schengen, ecc.), e gli associati, che di fatto fanno parte solo del mercato unico. In secondo luogo propone un nuovo sistema di governo, sovranazionale, per l’unione monetaria, che deve essere completata innanzitutto con un proprio bilancio fondato su risorse europee, e quindi dotata di una sua capacità fiscale, e rafforzata con la creazione di un vero e proprio Ministro europeo delle finanze. Individua poi come sciogliere il nodo della democraticità e della responsabilità del sistema di governo europeo, per cui vengono avanzate una serie molto coerente di proposte di riforma delle attuali istituzioni europee; e avvia un embrionale approfondimento della cooperazione nel campo della politica estera e di difesa.

Il rapporto ha davanti a sé molti ostacoli, prima di poter vedere effettivamente la luce: deve innanzitutto riuscire a passare nella stessa Commissione Affari costituzionali, e poi bisognerà vedere il tipo di accoglienza che gli riserverà il PE. E intanto, una volta reso pubblico, dovrà iniziare a guadagnare il consenso almeno di alcuni parlamenti e governi nazionali, per evitare che le enormi resistenze al cambiamento del sistema di governo europeo, che sono fortissime anche nelle forze pro europee, lo faccia deragliare su qualche binario morto.

Una battaglia, dunque, tutta politica, difficilissima, ma senza alternative, ormai. Verhofstadt è consapevole di entrambe le cose. Gli è ormai chiaro, come a tutti gli osservatori consapevoli, che i governi nazionali non riescono a trovare un accordo per imprimere una svolta al governo dell’euro; e che, come dimostra anche l’esito deludente dell’ultimo Consiglio europeo di metà ottobre,  le nuove sfide che incombono sull’Europa, prima fra tutte quella migratoria, con le sue emergenze, le sue cause, i suoi effetti, non fanno altro che evidenziare ed approfondire gli egoismi nazionali. Ed è consapevole che i nodi da sciogliere sono ormai troppi per riuscire ad affrontarli con singole misure o interventi specifici. La stessa questione del completamento dell’unione bancaria o fiscale, se resta slegata da quella istituzionale (e quindi dal confronto sulla riforma dei Trattati per sancire la nascita di un vero potere politico europeo) offre l’occasione ai governi di rifugiarsi dietro alle loro opposte ambiguità, perpetuando la contrapposizione tra i paesi che vogliono maggiore redistribuzione o flessibilità e i paesi che antepongono a questo passaggio un ulteriore rafforzamento dei controlli a livello europeo.

Al tempo stesso, le condizioni che rendono indilazionabile e priva di alternative credibili la riapertura del cantiere istituzionale in Europa, ne evidenziano anche gli ostacoli. Le stesse inerzie e resistenze che hanno fatto fallire tutti i tentativi di dar vita all’unione fiscale ed economica a maggior ragione si solleveranno contro l’ipotesi del “salto quantico” che il progetto Verhofstadt rappresenta. Come in ogni battaglia per cambiare l’ordine esistente, il sostegno di chi è favorevole tenderà ad essere debole e la posizione di chi difende lo status quo sarà rafforzata dalla consuetudine e dalla difesa degli interessi costituiti. Ma ciò non toglie che, finalmente, il fronte pro europeo potrà coagularsi attorno a un progetto chiaro e definito, e l’attuale pulviscolo di iniziative (che pure ci sono e che sono numerose – basti pensare a quella del Ministro Gentiloni rivolta ai paesi fondatori, o a quella per gli Stati Uniti d’Europa della Presidente della Camera Boldrini in collaborazione con i suoi omologhi di Francia, Germania e Lussemburgo) potrà trasformarsi in un insieme coerente, formando una massa critica e imprimendo una vera spinta al processo.

Verhofstadt sa che per vincere deve lavorare per cercare di dare visibilità alla sua iniziativa e per porla al centro del dibattito politico. Da parte sua ha indicato la volontà di avviare anche una campagna mediatica, che includa anche un film che, riprendendo l’esempio di Al Gore con il suo An Unconvenient Truth, sollevi la questione anche davanti al grande pubblico. L’obiettivo è quello di far nascere un’opinione pubblica europea, per vincere l’inerzia della politica nazionale. Ma è anche chiaro che, se da un lato Verhofstadt ha la statura per diventare un leader a livello europeo, dall’altro il suo disegno potrà avere successo solo se troverà alleati nel PE, nei parlamenti nazionali, in alcuni governi.

Per noi federalisti si apre una grande opportunità politica. L’agenda di Verrhofstadt, i suoi punti politici, sono i nostri, quelli attorno ai quali conduciamo la nostra battaglia ormai da anni e attorno a cui è articolata la nostra Campagna per la Federazione europea. Il successo di questo tentativo sarà in larga parte il nostro successo; e, in quanto tale, dipenderà anche dalla nostra capacità di azione politica e di mobilitazione.

 

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