Il pianeta sta attraversando una gravissima crisi ecologica legata non solo all’aumento della temperatura e al buco dell’ozono ma all’insieme dei problemi dell’inquinamento, della deforestazione, dello sfruttamento intensivo delle risorse e dei terreni. Le conseguenze, quali lo scioglimento dei ghiacci, i cambiamenti climatici, la desertificazione, l’innalzamento degli oceani, se non verranno arginate, cambieranno il futuro del pianeta.

Da anni gli scienziati studiano la relazione tra le attività dell’uomo e le questioni ecologiche; anche per quanto riguarda il riscaldamento del pianeta, nonostante alcuni pareri discordi, è evidente la relazione tra i picchi di emissione dei gas serra e l’aumento della temperatura. Da qualche decennio anche i governi hanno iniziato a porsi il problema di trovare delle soluzioni, ma le risposte che hanno fornito finora sono insufficienti, a partire proprio dal Protocollo di Kyoto, i cui obbiettivi non sono stati neppure rispettati. Ad esempio, in Europa, solo Gran Bretagna e Svezia sono teoricamente in grado di rispettarli grazie ai loro sforzi individuali; per affrontare la situazione servirebbe invece un coordinamento delle azioni a livello delle grandi regioni del mondo.

L’occasione per riparare alle mancanze di questo accordo che scadrà nel 2012 sembra potersi presentare al vertice di Copenhagen, che si terrà in dicembre e per il quale ii governi si stanno preparando, mentre le emissioni di anidride carbonica dei 40 paesi più industrializzati continuano a salire. Anche in passato ci sono stati alcuni appuntamenti importanti, in particolare la conferenza di Bali del dicembre 2007 e nel dicembre 2008 il summit di Poznan. A Bali i rappresentanti di 190 stati hanno discusso le conclusioni di una relazione preparata dall’IPCC, il Panel intergovernativo sui cambiamenti climatici. La sintesi del lavoro di sei anni è stata presentata il 16 novembre dello stesso anno con l’esortazione ai governi di tutto il mondo di assumere impegni più ambiziosi per le azioni contro la febbre del pianeta, ma, ancora una volta, tutte le decisioni sono state rinviate. A Poznan si è evidenziato come le proposte più coraggiose venissero avanzate dai paesi più arretrati, come il Brasile, che ha annunciato la riduzione della deforestazione del 70% entro i prossimi dieci anni.

Anche in vista di Copenhagen le prospettive non sono incoraggianti, considerando che anche il segretario della Convenzione delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici, Yvo de Boer, ammette che raggiungere un accordo in quell’occasione non sarà possibile. Questo anche perché i due paesi con le maggiori emissioni di CO2, Cina e USA, non condividono la stessa linea di azione. Gli USA con la nuova presidenza Obama sostengono la necessità di responsabilità comuni di tutti i paesi nella lotta all’emergenza ecologica. Mentre la Cina, facendosi portavoce dei paesi in via di sviluppo, sostiene che le responsabilità dovrebbero essere differenziate per non svantaggiare i paesi emergenti. Inoltre i PVS, come ad esempio l’India, chiedono aiuti economici e tecnologici da parte dell’Occidente per sostenere i loro sforzi, in particolare la liberalizzazione dei brevetti sulle tecnologie verdi.

Gli USA, da parte loro, hanno annunciato la riduzione entro il 2020 delle emissioni di gas ad effetto serra ai livelli del 1990 e di un altro 80% entro il 2050. Tutto ciò richiede ingenti investimenti federali, l’imposizione di limiti più severi per le emissioni, nuove imposte e l’aumento dell’impiego delle fonti di energia rinnovabili e di quella nucleare, e in particolare il raddoppio dell’uso di elettricità verde in tre anni. Invece la Cina, che ha da poco scavalcato gli USA per le emissioni di CO2, ritiene adeguata una riduzione da parte dell’Occidente delle emissioni di gas nocivi entro il 2020 almeno del 40%, cioè del doppio di quanto ha annunciato di voler fare lei stessa entro il 2010. Data entro cui, come dichiarato da Xie Zhenhua direttore della Commissione per la Riforma e lo Sviluppo Nazionale, dovrebbe portare a termine il programma di risparmio energetico nazionale che prevede una riduzione globale del 20%. Inoltre il paese prevede che entro il 2020 il 15% dell’energia proverrà da fonti rinnovabili. Comunque, dal 2006 al 2008 la Cina ha già ridotto i propri consumi di poco più del 10%, ridimensionando di conseguenza le emissioni di anidride carbonica di circa 750 milioni di tonnellate. In questa fase di crisi economica globale, però, alcuni esperti sono preoccupati che la Cina, in particolare, riservi meno attenzione e minori investimenti al risparmio energetico e all’inquinamento.

Infine, alcuni dati sull’Unione europea. Nonostante sia sempre stata all’avanguardia nella sua azione in difesa dell’ambiente e abbia dichiarato di voler ridurre le sue emissioni del 20% entro il 2020, negli ultimi anni l’Ue sta mostrando i suoi limiti. Infatti la questione richiede un particolare sforzo di ricerca e finanziario che solo gli Stati più vasti possono sostenere. Ad esempio l’Italia ha sì aumentato gli investimenti per lo stoccaggio di CO2 e per l’installazione di impianti eolici offshore, ma in una misura inadeguata rispetto ad un problema che ha dimensioni sovranazionali e che necessiterebbe un piano a livello continentale. Ma per averne uno, occorrerebbe innanzitutto rilanciare il processo costituente europeo: solo uno Stato federale europeo, infatti, avrebbe le possibilità economiche e tecnologiche di attuare gli obbiettivi che ora l’Unione può solo dichiarare. Considerata l’urgenza della questione dovrebbero essere i paesi con una maggiore storia di integrazione a costituire un primo nucleo di federazione, in primis Francia e Germania, tra l’altro il paese più industrializzato del continente. L’Europa tornerebbe così ad essere un modello per il resto del mondo e sarebbe anche in grado di sostenere gli sforzi dei paesi in via di sviluppo.

 

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