Le crisi delle forniture di gas russo all’Europa rischiano di diventare un aspetto ricorrente dei nostri inverni, alle quali ci stiamo adattando come ad uno dei tanti fastidi della brutta stagione. Esse sono però un segnale preoccupante dell’incapacità degli europei di formulare una propria politica degli approvvigionamenti energetici e del bassissimo livello di considerazione di cui gode ormai l’Europa sulla scena internazionale.

La Russia esporta circa 140 miliardi di metri cubi di gas naturale all’anno in Europa, circa il 20% del suo fabbisogno. Germania, Polonia ed Italia sono i clienti principali. Il gas naturale costituisce una delle fonti di energia meno costose e meno inquinanti e quello russo risulta particolarmente conveniente perché, per distanze inferiori ai 30004000 chilometri, trasportare il gas per mezzo di condotti ad alta pressione risulta meno costoso rispetto al trasporto su nave.

Inoltre i contratti per il gas comprendono di regola l’ammortamento del costo del gasdotto e sono quindi stipulati per periodi lunghi, garantendo maggiore stabilità nelle quantità e nei prezzi delle forniture rispetto a quanto avviene per il petrolio.

Le reti di gasdotti sono però molto sensibili, data la loro rigidità, alla stabilità politica delle aree geografiche che attraversano. Non è un caso che i gasdotti che collegano la Russia all’Europa sono stati costruiti quando ancora esisteva l’URSS, che esercitava un potere stabilizzante nell’area, e sono diventati un problema ora che gli stati dell’Europa dell’Est sono al centro di nuove tensioni internazionali.

Dopo il crollo dell’URSS, l’Occidente ha mantenuto un atteggiamento ambiguo nei confronti della Russia: la politica, soprattutto americana, di contenimento nei suoi confronti ha sempre avuto il sopravvento su quella volta alla sua integrazione nel mondo occidentale. In particolare gli USA hanno cercato di sfruttare i nuovi giacimenti scoperti nelle exRepubbliche sovietiche dell’area del Mar Caspio in funzione antirussa, per esempio cercando di organizzare la costruzione di nuovi gasdotti che collegassero direttamente questa zona all’Europa, con l’intento di ridurre l’influenza della Russia in ambito energetico. I russi hanno risposto con un certo successo spingendo sul Gruppo di Shangai (Kazakstan, Kyrgyzstan, Tajikstan, Russia, Cina) perché contrastasse questi progetti e proponendo la costituzione di un OPEC per il gas.

In effetti l’economia russa e le sue speranze di risollevarsi dipendono grandemente dalle esportazioni di petrolio e di gas, e quindi la Russia ha valide ragioni per temere la vulnerabilità dei corridoi di esportazione verso l’Europa. Mentre un tempo questi canali attraversavano i paesi del patto di Varsavia, la maggior parte delle esportazioni oggi passa per i paesi membri della NATO o candidati ad entrarvi. Inoltre tutto il petrolio russo del Mar Nero deve attraversare lo stretto del Bosforo controllato dalla Turchia, un’altro membro della NATO. Per di più l’80% dell’intera produzione di Gazprom destinata all’Europa attraversa l’Ucraina. Non c’è quindi da sorprendersi se la Russia vede l’indebolimento del suo controllo sulle esportazioni di gas come una seria minaccia alla sua sicurezza.

Mentre gli Stati dell’Europa dell’Est sono ancora condizionati dal ricordo dell’Unione Sovietica, quelli dell’Europa occidentale sembrano consapevoli della complementarietà delle economie russa ed europea e del forte interesse a collaborare per uno sviluppo comune. D’altra parte essi temono però la potenza politica e militare del loro vicino. Oscillando tra questi opposti interessi e non essendo in grado di assumersi le proprie responsabilità, vuoi per la dipendenza dalle politiche degli USA, vuoi per la cronica inefficienza delle istituzioni europee, l’Europa non può certo essere considerata dalla Russia un partner affidabile, con cui cercare di accordarsi per mettere al sicuro le proprie esportazioni.

Rispetto a questi problemi i governi europei, nessuno escluso, sembrano del tutto inadeguati ed impotenti. La necessità di una politica energetica comune sembra ormai largamente accettata, ma i tentativi di tradurre questa consapevolezza in atti concreti si scontrano contro gli attriti latenti tra gli Stati, rischiando di esacerbarli. Anche le iniziative di alcuni di loro, come il gasdotto del Mare del Nord che congiungerà direttamente la Russia alla Germania ed il ricorso dell’Italia alle importazioni assai più costose di gas liquefatto da altri paesi, si limitano ad aggirare il problema senza affrontarlo alla radice.

Solo uno Stato federale europeo, non necessariamente esteso all’intero continente, ma dotato di reali poteri in materia di politica estera e di sicurezza, potrebbe costituire un interlocutore forte e credibile per la Russia. La confusione e l’impotenza che regna in Europa è ben rappresentata da un recente episodio. L’Unione europea ha cercato per diversi anni di ottenere dal Cremlino la firma di un trattato che facilitasse gli investimenti delle compagnie europee nel settore energetico russo e consentisse loro di utilizzare i gasdotti russi. Prima del convegno di Helsinki dell’autunno 2006, Putin avvisò gli europei di non essere interessato ad un accordo in questo senso senza una contropartita per le imprese russe nell’Europa occidentale. Per di più chiese agli europei di intervenire perché il Dipartimento di Stato americano riducesse i controlli sulle esportazioni di alta tecnologia e che il trattato contenesse misure per aprire il mercato dei combustibili nucleari in cui la Russia stava investendo. Tutte misure, nelle intenzioni di Putin, volte a riconoscere relazioni paritarie tra la Russia e l’Occidente, ma che gli europei non erano in grado di affrontare. Ciononostante, durante il convegno di Helsinki, la Commissione europea guidata da Barroso offrì il trattato ai russi che semplicemente si rifiutarono di firmare. I fautori di questa Europa dovrebbero chiedersi come i loro leader abbiano potuto portare avanti questo colloquio tra sordi conclusosi per loro in modo così poco edificante.

 

 

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