La questione della sicurezza dei cittadini è oggi al centro di un dibattito acceso, riflesso dei molteplici risvolti economici e sociali che il problema dei flussi migratori verso l’Europa ha ormai da alcuni anni sulle nostre comunità. La dimensione del fenomeno immigrazione si scontra infatti con la relativa carenza di un’azione statale adeguata nel ridefinirne gli effetti che, al di là dei giudizi di valore, rimangono troppo poco controllati e programmati. La conseguenza di tale carenza si riflette sul piano dell’integrazione e quindi su quello della percezione della sicurezza da parte dei cittadini.

La partecipazione degli immigrati nell’economia dei nostri paesi ha proporzioni notevoli. Le statistiche ISTAT evidenziano che la quantità di manodopera estera, come numero di addetti, è superiore al tasso di disoccupazione dei cittadini italiani di nascita e il 9,2% del PIL è prodotto da immigrati. La ragione è legata al fatto che gli italiani, così come gli europei occidentali in generale, si fanno sempre meno carico di certe mansioni – in particolare quelle legate sostanzialmente all’edilizia per gli uomini e ai lavori domestici per le donne – che vengono invece svolte senza riluttanza dagli stranieri. Un sondaggio relativo all’integrazione nel mondo del lavoro rileva buoni indici di riferimento in termini di soddisfazione sia da parte del lavoratore estero che di quello italiano. Il 75% degli stranieri si sente infatti ben integrato o abbastanza integrato con gli altri, e solo il rimanente 25% si sente “per nulla integrato”; tra questi ultimi, la maggioranza sono africani, date le maggiori differenze di tipo culturale e religioso, mentre cinesi, esteuropei e sud americani si integrano con più facilità.

Da questi dati sono esclusi gli stranieri che provengono dai paesi occidentali e i laureati, che vengono invece accolti mediante permessi ad hoc, la cosiddetta “blue card” – sulla scia della “green card” statunitense, la quale però offre un servizio decisamente migliore rispetto alla card europea. Si tratta di un tentativo concordato a livello europeo per attirare “buoni cervelli”, ma che si sta dimostrando ancora largamente insufficiente ai fini di sanare la carenza di personale scientificamente qualificato e la sproporzione tra anziani e giovani che costituisce uno dei problemi maggiori per il futuro della previdenza sociale.

Il motore più efficace di integrazione resta comunque la scuola, perché è evidente che l’iter scolastico porta a condividere una base culturale comune fin da giovani e permette agli immigrati di sentirsi più occidentali e spinge a loro volta gli occidentali a meglio accettare gli immigrati. Tuttavia sussiste uno sfasamento tra i tempi necessariamente lunghi della scolarizzazione e il continuo flusso di immigrati poco integrati, che peraltro hanno una carriera scolastica breve.

L’integrazione in generale resta quindi un problema non risolto. Ne è una prova la sconfortante, progressiva ghettizzazione, che è un fenomeno forte e ampio nelle grandi città e che comincia a diventare predominante anche nelle province. E’ evidente che la progressiva reclusione di gruppi etnici in luoghi chiusi come le varie China Town rallenta a sua volta le possibilità di integrazione ed è un fatto che, anche se sarebbe sbagliato voler cancellare le culture originarie dell’immigrato, il rapporto costante con la realtà occidentale e l’assimilazione dei suoi valori fondamentali è assolutamente necessario. La situazione, oltretutto, è destinata a peggiorare per effetto della crisi economica cui il mondo sta andando incontro, che, in base alle previsioni che vengono fatte, avrà effetti devastanti sui paesi in via di sviluppo. Questi, oltre all’impoverimento ulteriore determinato dalla recessione a livello mondiale, subiranno i tagli degli aiuti da parte del nord del mondo e, presumibilmente, registreranno un progressivo aumento della conflittualità e degli scontri militari. Per la popolazione civile in molti casi non ci saranno altre possibili soluzioni al di fuori della fuga dalle loro realtà.

Queste tensioni si riflettono sullo stato d’animo dei cittadini europei e portano ad un vistoso aumento dei voti alle destre più xenofobe, proprio a causa del sentimento diffuso di una carenza di sicurezza. La gente ha sempre più paura dell’immigrato e la consapevolezza del fatto che non esiste nessuna correlazione tra l’origine nazionale e la propensione alla devianza pare perdersi sempre più. Questo clima di tensione crescente a sua volta costituisce un ostacolo alla possibilità di una corretta integrazione.

Eppure le statistiche sono in controtendenza rispetto alla reazione dell’opinione pubblica: il numero di omicidi e di delitti per persona è infatti in netto calo negli ultimi trent’anni, mentre il numero di immigrati continua a crescere. E’ vero che c’è una grande differenza tra gli immigrati registrati e quelli clandestini; dei primi, due milioni e mezzo hanno un lavoro regolare e vivono una situazione dignitosa, e solo il 4% ha commesso almeno una volta un reato; mentre i secondi, che continuano ad essere molto numerosi, rappresentano il 7090% della criminalità straniera (anche se una metà di loro non ha mai commesso reati). Se i dati relativi al tasso di criminalità sono quindi in apparenza bassi, pesa comunque il fatto che la recidività è assai frequente tra gli immigrati, soprattutto tra i clandestini, che vivono una situazione che porta molto facilmente alla devianza.

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Il problema della gestione dell’immigrazione è reso ancora più complesso dall’inadeguatezza dei singoli Stati europei a fronteggiare la questione della regolamentazione dei flussi migratori, anche a causa della comune appartenenza all’Unione europea. Negli ultimi cinquanta anni, infatti, il progetto politico e di civiltà sul quale si basano la creazione e l’approfondimento dell’UE ha consentito progressi significativi. Uno dei risultati raggiunti è la costituzione di un vasto spazio di libera circolazione che comprende oggi la maggior parte del territorio europeo. Questo sviluppo ha permesso un ampliamento senza precedenti della libertà, sia per i cittadini europei che per i cittadini dei paesi terzi che circolano senza vincoli in questo territorio comune, ed è un fatto che rappresenta altresì un importante fattore di crescita e prosperità che verrà ulteriormente accresciuto dalla già prevista estensione del Trattato di Schengen. In questo contesto, le migrazioni internazionali – che sono una realtà destinata a persistere finché resteranno i divari di ricchezza e di sviluppo tra le diverse regioni del mondo – possono effettivamente rappresentare, se ben governate, un’opportunità, sotto diversi punti di vista. Esse costituiscono uno stimolo per le società che accolgono i migranti perché sono un fattore di arricchimento culturale ed economico; possono contribuire in modo decisivo allo sviluppo dell’area dell’Unione europea e degli Stati membri che hanno bisogno di nuova forza lavoro. Inoltre mobilitano le migliori energie perché consentono alle persone più determinate di concretizzare le proprie aspirazioni e apportano risorse non solo agli immigrati e alle loro famiglie, ma anche ai loro paesi d’origine, contribuendo in tal modo al loro sviluppo.

Il problema di una gestione programmata e razionale degli ingressi nell’area UE è quindi di primaria importanza. In quest’ottica e alla luce della comunicazione della Commissione del 17 giugno 2008, il Consiglio europeo ha deciso di adottare il Patto europeo sull’immigrazione e l’asilo. Consapevole del fatto che l’attuazione integrale del patto dovrà richiedere, in alcuni settori, un’evoluzione del quadro giuridico, il Consiglio europeo ha deciso di assumere cinque impegni fondamentali la cui concretizzazione sarà perseguita, in particolare, nell’ambito del programma che farà seguito nel 2010 a quello dell’Aja, attualmente in corso: 1) organizzare l’immigrazione legale tenendo conto delle priorità, delle esigenze e delle capacità d’accoglienza stabilite da ciascuno Stato membro e favorire l’integrazione; 2) combattere l’immigrazione clandestina, in particolare assicurando il ritorno nel loro paese di origine o in un paese di transito, degli stranieri in posizione irregolare; 3) rafforzare l’efficacia dei controlli alle frontiere; 4) costruire un’Europa dell’asilo; 5) creare un partenariato globale con i paesi di origine e di transito che favorisca le sinergie tra le migrazioni e lo sviluppo.

All’interno di questi cinque punti si possono trovare molte altre annotazioni, tra cui le più rilevanti riguardano l’espulsione degli stranieri in posizione irregolare sul territorio di Stati membri e l’agenzia FRONTEX. Per quanto riguarda la prima questione, ciascuno Stato membro si impegna ad assicurare l’applicazione effettiva dell’espulsione nel rispetto del diritto e della dignità delle persone interessate, privilegiando il rimpatrio volontario, e riconosce le decisioni in materia di rimpatrio adottate da un altro Stato membro. Per quanto riguarda l’agenzia FRONTEX, essa deve essere rafforzata, nel rispetto del ruolo e delle responsabilità proprie degli Stati membri, dotandola dei mezzi necessari per esercitare pienamente la sua missione di coordinamento del controllo delle frontiere esterne dell’Unione europea, per far fronte a situazioni di crisi e per condurre, su richiesta degli Stati membri, le necessarie operazioni temporanee o permanenti, conformemente, in particolare, alle conclusioni del Consiglio del 5 e 6 giugno 2008. Sulla scorta dei risultati ottenuti potrà essere decisa la creazione all’interno dell’agenzia di uffici specializzati, in particolare per le frontiere terrestri orientali e marittime meridionali.

Come ultimo passo potrà essere esaminata la creazione di un sistema europeo di guardie di frontiera.

Nell’analizzare queste misure decise a livello comunitario emergono immediatamente con evidenza sia il problema dei tempi lunghissimi delle decisioni adottate sia, soprattutto il fatto che le misure proposte in questi pacchetti comuni, oltre ad essere chiaramente inadeguate, dipendono comunque dalla volontà e dagli strumenti dei singoli Stati, cui spetta ogni responsabilità in termini di applicazione. In questo modo non si va a cambiare sostanzialmente nulla rispetto all’attuale gestione delle politiche migratorie. Se il problema fondamentale riguardo alla questione dell’immigrazione è proprio quello dell’incapacità dei singoli Stati di fronteggiare le contraddizioni che ne derivano, in termini di controllo, di integrazione dei migranti e di programmazione dei flussi, è evidente che è proprio la mancanza di una politica unica europea la carenza più vistosa. Qualunque strada si scelga per il futuro – l’adozione di politiche di contenimento o quella di politiche di incentivazione – il punto è proprio quello di essere guidati da un orientamento unico europeo sulla base dell’indirizzo di un solido governo federale continentale. E questo sia perché le risorse per governare il fenomeno sono reperibili solo nell’ambito di un quadro sovranazionale, sia perché solo all’interno di uno Stato dalle dimensioni adeguate rispetto alle sfide del XXI secolo è possibile pensare e realizzare un progetto di sviluppo della società capace di integrare i nuovi venuti e di trasformare la multiculturalità in ricchezza. Questo è un obiettivo che nessun singolo Stato europeo è più in grado di perseguire.

La possibile soluzione, ancora una volta, porta pertanto alla necessità di creare in tempi rapidi la Federazione Europea, che finalmente porterebbe a un’unità di azioni e di vedute che permetterebbe manovre più incisive e decise a vantaggio di tutti. Ma, occorre ricordare che l’iniziativa per dar vita ad un primo nucleo dello Stato federale europeo spetta in primo luogo ai paesi fondatori, ed in particolare alla Francia, alla Germania e all’Italia, senza il cui impegno a rinunciare alla propria sovranità nazionale l’Europa è destinata a rimanere un grande mercato integrato, incapace di iniziativa politica.

 

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