All’indomani della firma del Trattato costituzionale europeo a Roma, e in vista del difficile processo che dovrebbe portare alla sua ratifica, risulta quanto mai utile cercare di analizzare lo stato del processo di unificazione europea. E’di vitale importanza infatti che in questo momento molto delicato, in cui è in gioco la coesione dell’Unione, nella classe politica e nell’opinione pubblica si cerchi di fare chiarezza sulle prospettive future cercando quindi di valutare a fondo le problematiche che sono sul campo e l’importanza di certe scelte da compiere.

Un’analisi di questo genere è presente in un rapporto pubblicato dall’Economist del 25 settembre scorso, che traccia un ampio quadro su molteplici aspetti dello stato dell’Unione.

Ampio spazio in questa trattazione è dedicato all’analisi dell’economia europea, analisi che evidenzia i nodi che l’Unione si trova a dover affrontare e risolvere e che già negli ultimi anni l’hanno portata ad un generale declino. La bassa crescita, l’aumento della disoccupazione, la diminuzione degli investimenti in ricerca e sviluppo e la crescita della concorrenza dall’esterno sono tra i fattori principali di questa situazione che minaccia ormai la stessa sopravvivenza del modello sociale europeo, come del resto aveva già messo in evidenza anche il rapporto Sapir. Si tratta di problemi che non possono essere affrontati produttivamente dai governi europei per ragioni strutturali, dato che gli Stati nazionali sono troppo piccoli per avere politiche economiche forti ed efficaci, e in questa situazione le forze di governo non riescono ad avere il consenso delle opinioni pubbliche nazionali su provvedimenti che in effetti non riescono ad essere incisivi (come già avvenuto ad esempio in Germania al partito di Schroeder nelle recenti elezioni regionali). Per questo, la prospettiva di soluzione o comunque di miglioramento della situazione non può che essere pensata in un quadro europeo, con una politica economica di ampio respiro e di lungo periodo che possa al tempo stesso promuovere lo sviluppo e salvaguardare il modello sociale europeo.

Il progetto di un’Unione dotata di un governo e di una politica economica e fiscale, in grado di rilanciarsi sia economicamente sia politicamente sulla scena internazionale, sembra raccogliere anche il consenso dei cittadini europei. Un sondaggio effettuato dalla fondazione Marshall ha evidenziato un grande consenso per l’idea che “l’Unione europea … . diventi una superpotenza come gli Stati Uniti”. Più dell’80% dei francesi e il 73% dei tedeschi per esempio si sono dimostrati d’accordo con questa prospettiva. Ma questa aspirazione contrasta con l’effettiva possibilità di dotare l’Unione delle istituzioni necessarie per renderla capace d’agire. E’ emblematica in proposito la divisione verificatasi in Europa in occasione della guerra in Iraq tra due visioni politiche contrapposte. Una indicata dall’Economist addirittura come quella degli “Euro-nazionalisti”(sostanzialmente la Francia e la Germania), che vedrebbero l’Europa come un attore sempre più indipendente sulla scena mondiale e desideroso di controbilanciare gli Stati Uniti, e l’altra indicata come quella degli “atlantisti”, capeggiati da Gran Bretagna e Italia, che vedono l’Europa con una struttura simile a quella di oggi, ma sempre più legata agli Stati Uniti. Questa differenza viene sottolineata in diverse sezioni del rapporto dell’Economist, ed è ulteriormente accentuata dalla presenza nell’Unione, dopo l’allargamento, di un numero crescente di paesi che vedono nell’Europa un punto di riferimento indispensabile per garantirsi sviluppo e benessere, ma niente di più. L’Economist ricorda come tutti i nuovi paesi membri abbiano considerato l’ingresso nell’Unione come un’affermazione della propria identità e della propria emancipazione dall’influenza sovietica-russa e abbiano ribadito, con le parole di Vaclav Havel, che per essi “il concetto di sovranità nazionale è qualcosa di inviolabile”. La prospettiva verso cui è incamminata l’Unione oggi è quindi molto diversa rispetto a quella delle origini del processo, che prevedeva uno sbocco federale, e per questo, sempre secondo l’Economist, “il sogno federalista degli Stati Uniti d’Europa è destinato a cadere nell’oblio”.

Come reazione a questa situazione, nonostante nei giorni successivi alla firma del Trattato costituzionale a Roma si sia sentito molto parlare trionfalmente dei successi dell’Europa allargata e della nuova cosiddetta costituzione, prende però sempre più corpo l’idea che sia necessario incominciare a pensare di imboccare una strada nuova. Strada che lo stesso Economist non manca di segnalare quando, con una certa preoccupazione, indica che alternatively “ci potrebbe essere un drammatico tentativo di rilanciare l’Unione europea e salvare il sogno dell’unità politica”. “Nella stessa Francia” prosegue l’Economist, “una frangia politica delusa dall’allargamento, ha da tempo incominciato a fantasticare circa la possibilità di dissolvere l’attuale Unione e di proporre una nuova unione politica a partire dai sei paesi fondatori, o almeno dalla Francia e dalla Germania”.

Non meraviglia che l’Economist descriva questo scenario di rottura come alarming. Meraviglia invece che, almeno nei paesi fondatori, dove si continua a parlare di necessità dell’Europa, di Europe-puissance ecc., l’iniziativa per concretizzare questa alternativa non sia stata ancora messa all’ordine del giorno.

 

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