Esiste un ampio consenso sul fatto che il “Trattato che adotta una Costituzione per l’Europa”, firmato a Roma lo scorso 29 ottobre, è un cattivo documento. Molti però pensano che esso contenga alcuni passi avanti, anche se minimi, rispetto al precedente Trattato di Nizza, e che questo sia un motivo sufficiente per impegnarsi affinché esso venga ratificato.

L’esame dei piccoli avanzamenti (e dei piccoli arretramenti) compiuti dal “Trattato che adotta una Costituzione per l’Europa” rispetto al Trattato di Nizza va lasciato agli esperti di diritto comunitario. Il problema politico è un altro. Si tratta di vedere se la sua ratifica sarà rilevante, cioè se il futuro dell’Unione e il destino degli Europei dipenderanno, anche se in minima parte, dalle sue sorti. Così non sarà. Se ci si pone in quest’ottica infatti si deve constatare che, da quando è iniziato l’iter che ha portato alla firma del Trattato, ben altri sono stati gli avvenimenti dai quali è dipesa l’evoluzione dei rapporti reali tra gli Stati dell’Unione. Da allora hanno avuto luogo la guerra in Iraq, che ha messo in evidenza la spaccatura profonda che divide tra loro gli Stati dell’Unione europea in materia di politica estera; la crisi del Patto di stabilità, che ha mostrato le conseguenze della mancanza di una politica economica europea e la fragilità delle basi su cui poggia l’euro; e l’allargamento a venticinque membri della compagine dell’Unione, che ne ha esasperato l’ingovernabilità.

Ciò dimostra che oggi, quali che siano i piccoli passi avanti istituzionali escogitati con i vari trattati per regolare il funzionamento dell’Unione, questa negli ultimi anni ha compiuto nella realtà drammatici passi indietro; e che l’evoluzione dei rapporti di potere all’interno e al di fuori di essa ha giocato e gioca non certo per, ma contro l’unità politica dell’Europa. Non per nulla molti di coloro che pure continuano a definirsi “europeisti” sono giunti alla conclusione che quella dell’unificazione politica del continente è ormai diventata una prospettiva utopistica e concepiscono il proprio “europeismo” soltanto come il sostegno ad una blanda collaborazione tra Stati sovrani da realizzare attraverso le attuali impotenti istituzioni europee.

Molti altri per contro dicono di continuare a credere che l’obiettivo dell’unità politica dell’Europa sia ancora in vista, anche se in un futuro lontanissimo e in una forma indefinita nei suoi contorni, e che esso possa essere perseguito con una progressiva riforma delle istituzioni dell’Unione attraverso ritocchi come quelli contenuti nel Trattato.

Ma tutti sanno in realtà che l’Unione attuale non possiede affatto la capacità di riformarsi e che i governi dei suoi venticinque paesi membri, una parte rilevante dei quali si proclama apertamente contraria ad ogni prospettiva di unificazione politica dell’Europa e riflette un atteggiamento dell’opinione pubblica che va nello stesso senso, non potranno mai trovare la volontà necessaria per fare in futuro ciò che i loro predecessori non hanno saputo fare in passato in situazioni ben più favorevoli, cioè per rilanciare il processo e per avviarlo ad uno sbocco federale. Non sono certo gadgets istituzionali come le cooperazioni rafforzate che potranno rimediare ad una paralisi che ha le sue radici nella struttura e nella composizione dell’Unione.

Ciò non toglie che l’unità politica dell’Europa sia più necessaria che mai. La contraddizione tra la dimensione europea dei problemi e quella nazionale degli strumenti con i quali essi vengono affrontati non solo continua ad esistere, ma si approfondisce ogni giorno di più: anche se essa è particolarmente acuta in Francia, Germania e negli altri paesi che insieme a Francia e Germania hanno vissuto l’avventura europea fin dai suoi inizi. La partita è quindi aperta e l’obiettivo della Federazione europea è drammaticamente all’ordine del giorno. Ma deve essere chiaro che oggi il problema non è quello di riformare l’Unione, ma quello di rifondarla, prendendo atto dell’impossibilità delle istituzioni europee attuali di uscire dall’impasse in cui si trovano.

Non si tratta di far evolvere queste ultime, attraverso una serie di piccoli passi, verso un’impossibile unità politica che nasca nel quadro dell’intera Unione, ma di ripartire al di fuori del loro ambito, assumendo tutti i rischi che questo approccio radicale comporta. Il che significa porre in termini espliciti il problema della rinuncia alla sovranità nel quadro in cui ciò è oggi pensabile e rilanciare l’obiettivo dell’unità politica dell’Europa attraverso un processo che inizi con la fondazione di un nucleo federale riunito attorno a Francia e Germania e si allarghi successivamente all’intero continente.

 

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