L’Africa, con le sue ricchezze minerarie e petrolifere, continua ad essere un continente estremamente importante per il mondo. Nonostante i gravi problemi che l’affliggono, essa è anche un continente in forte crescita demografica, con una popolazione che, dai 760 milioni di oggi, si prevede passerà nel giro di qualche decennio a due miliardi di persone – con tutti i problemi che ciò comporterà in termini di sviluppo economico, di crescenti tensioni interne e sfruttamento del territorio. Oggi la distribuzione della popolazione è fortemente ineguale, anche per le vaste aree desertiche o inospitali che la caratterizzano, ma l’Africa conta già una quarantina di città con più di un milione di abitanti, contro nessuna nel 1950.

Di fronte a questo tumultuoso sviluppo – e al nuovo quadro internazionale – gli europei cercano di ridefinire i loro rapporti politici e commerciali con i paesi africani. Ma, come ha dimostrato la riunione dei paesi africani e della UE, svoltasi in dicembre a Lisbona, l’influenza dell’Europa nel continente africano ha cominciato a scemare, soprattutto a seguito del ritorno della Cina sul piano economico, e non più e solo sul piano politico militare come era avvenuto negli anni Sessanta.

Vale la pena ricordare che la Cee nel 1975 aveva siglato con quarantasei paesi dell’Africa, dei Caraibi e del Pacifico l’Accordo di Lomé per promuovere un nuovo rapporto con i paesi di quell’area, basato su regimi preferenziali e su uno scambio più equo tra paesi industrializzati e paesi in via di sviluppo appartenenti all’accordo. L’ultimo rinnovo della convenzione è stato quello di Cotonou nel 2000, che scade nel 2020 e coinvolge settantotto paesi.

I nuovi accordi imposti dal WTO, tuttavia, hanno in qualche modo messo fuori legge quella convenzione, mettendo gli Stati europei di fronte alla necessità di rinegoziare i rapporti commerciali con i paesi ACP, molti dei quali africani. Tuttavia, sebbene l’UE abbia promesso una progressiva eliminazione delle barriere doganali e di altri meccanismi di protezione, la ridefinizione degli accordi non è stata accolta favorevolmente da molti leader africani. Il Vertice di Lisbona tra Unione ed Africa, in cui si è discusso, tra l’altro, di diritti umani, di integrazione regionale, di clima e di energia, se, infatti, ha consentito di confermare la natura strategica della partnership tra i ventisette paesi UE e i cinquantatre Stati africani non ha però sopito i disaccordi sulle nuove proposte di partenariato commerciale (EPA) che dovrebbero sostituire i vecchi accordi. Queste proposte prevedono in sostanza l’abolizione dei dazi europei per i paesi ACP in cambio della liberalizzazione dei mercati di questi Stati per i prodotti europei. Questo nuovo corso, come ha dichiarato il presidente del Senegal, A. Wade, che ha guidato l’opposizione africana agli EPA insieme al presidente sudafricano Thabo Mbeki, “non è nell’interesse dell’Africa”. Molti leader africani hanno a questo proposito dichiarato che simili accordi sono favorevoli soprattutto per gli europei, in quanto i paesi africani non sono pronti per una apertura indiscriminata dei loro mercati e, a differenza del passato, possono oggi rivolgersi ad un altro interlocutore commerciale: la Cina.

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Da tempo l’Africa rappresenta per la Cina anche un’area in cui incrementare le intese politiche, che spesso hanno dei risvolti anche a livello internazionale. Basti ricordare che nel 1971 alla Cina venne riconosciuto il seggio in seno al Consiglio di sicurezza anche grazie al voto dei paesi africani. Anche nei decenni passati, la politica di non allineamento della Cina, con lo sviluppo della linea terzomondista, aveva contribuito sin dai tempi del Vertice di Bandung a renderla più accettabile agli occhi degli africani rispetto ai paesi colonialisti o imperialisti.

Recentemente, l’interesse di Pechino per l’area africana è testimoniato dalla costituzione del Forum per la cooperazione cinoafricana, la cui prima sessione si è tenuta a Pechino nel 2000, la seconda nel 2003 ad AddisAbeba, e la terza a Pechino nel 2006. Proprio in quest’ultima occasione, con il pellegrinaggio di decine di paesi africani in Cina, il Presidente cinese Hu Jintao ha definito le nuove prospettive di collaborazione strategica tra Cina ed Africa. Queste riguardano, tra le altre cose, la cancellazione dei debiti con la Cina per i paesi più poveri e indebitati, il raddoppio degli aiuti allo sviluppo, la concessione di prestiti diretti e la creazione di un fondo di sviluppo per concedere sovvenzioni alle imprese cinesi che investono in Africa, l’offerta di formazione professionale da parte cinese per i lavoratori africani.

Anche se non bisogna sopravvalutare le conseguenze dell’impegno economico cinese in Africa, bisogna constatare che, dopo decenni di crescita quasi a zero, l’Africa ha oggi un tasso di crescita del 5,4%, che si prevede aumenterà stabilmente nei prossimi anni fino al 7%, secondo stime delle Nazioni Unite. E resta il fatto che in Africa, più che in altri continenti, si evidenzia una precisa strategia cinese, basata sull’uso del potere economico e della grande disponibilità finanziaria per fare accordi senza condizioni e garantendo la non ingerenza nella politica interna dei paesi africani.

L’interesse cinese è rivolto principalmente ai paesi produttori di petrolio (l’Africa produce il 9% del petrolio mondiale), in particolare l’Angola, il Sudan e la Nigeria. Più in generale, solo negli ultimi cinque anni gli scambi commerciali tra Cina e Africa sono decuplicati, con ottocento aziende cinesi presenti in ventotto paesi africani. La Cina acquista dall’Africa, oltre al petrolio, gas naturale, cobalto, allumino, rame, carbone, oro, fosfati, diamanti, legno, cotone. Fa ricerche minerarie, apre nuove miniere e in cambio costruisce per gli africani infrastrutture o le finanzia: centrali elettriche, strade, ferrovie. Vende tecnologia, investe in telecomunicazioni. Vende prodotti di ogni tipo a basso costo e spesso di qualità non eccelsa ma, anche, armi leggere, aerei, elicotteri, materiali di comunicazione.

La differenza fondamentale rispetto agli investimenti di altri paesi nel passato è che la Cina ha un’enorme disponibilità di risorse finanziarie, derivanti dalle sue eccedenze commerciali, gestite attraverso i suoi fondi sovrani – investimenti di capitale pubblico all’estero –, e ha una velocità di realizzazione dei progetti che non trova concorrenza nel mercato internazionale. Un rapporto presentato dal senegalese Mbaye Cisse, ha efficacemente descritto la strategia di penetrazione cinese in Africa. Essa “parte generalmente con la creazione di una jointventure con un’impresa locale o internazionale per acquisire i diritti di esplorazione e sfruttamento .. e poi si collega con l’importazione di materiale e di manodopera cinese per la realizzazione di infrastrutture (strade e oleodotti) necessari all’avviamento del petrolio verso i siti portuari” (L’affirmation d’une stratégie de puissance, la politique africaine de la Chine, di Mbaye Cisse, www.diploweb.com/forum/chine07102.htm).

In questo modo, progressivamente il mercato africano, meno esigente del mercato occidentale sulla qualità dei prodotti, diviene un mercatotest per l’industria cinese. Da diversi anni per esempio, le imprese cinesi si segnalano nella costruzione di centrali elettriche (in Sudan e in Mozambico), nel settore aeronautico nello Zimbawe e in quello nucleare nell’Africa del Sud.

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La Cina, dopo aver trascinato parte dell’Asia in un trend di crescita a due cifre, sta dunque agendo con successo anche in Africa. Insieme all’India, con una popolazione complessiva di quasi due miliardi e mezzo di persone, ha da un lato aumentato poderosamente la domanda energetica e di materie prime in generale, con tutto ciò che consegue in termini di tensioni sui prezzi di questi beni e di preoccupazioni geopolitiche, ma dall’altro lato ha introdotto nuove dinamiche di sviluppo e di collaborazione con aree che sembravano statiche o in declino, quali quella africana e quella dell’America Latina. In questo modo è diventata un partner credibile, affidabile e alternativo rispetto all’Europa e agli USA per un numero crescente di paesi.

Nonostante l’Europa abbia promosso per prima politiche di cooperazione con l’Africa e sia al primo posto nelle sovvenzioni a favore di questo continente, è evidente il divario della sua azione rispetto a quella della Cina. L’Unione europea, non è uno Stato, non ha un governo e non ha potuto quindi attuare una strategia unitaria per l’Africa. Nonostante l’esistenza di accordi euroafricani, la Francia, la Germania e la Gran Bretagna hanno continuato e continuano a sviluppare politiche estere e militari in Africa in molti casi divergenti e contraddittorie.

Dopo trent’anni di politica euroafricana, per l’Unione europea si sta profilando quindi il pericolo di vedersi sottrarre nell’area africana il controllo di importanti risorse energetiche e di materie prime, di cui Cina e India stanno facendo incetta. Sul terreno politico, gli europei non sembrano aver fornito modelli e strumenti per fronteggiare il radicamento del fenomeno del fondamentalismo islamico e per porre termine a dei regimi corrotti e dispotici. Sul terreno monetario, è vero che grazie all’euro si è formata un’area di influenza monetaria europea in diverse parti dell’Africa, ma senza un’adeguata capacità di governo dell’euro e della sua stabilità, questa situazione è precaria e rischia addirittura di esporre diversi paesi africani a crisi difficilmente gestibili.

L’Africa in definitiva si sta rivelando un vero e proprio banco di prova per la sostenibilità del modello europeo di cooperazione internazionale nel campo politico ed economico. Allo stato attuale, con gli europei divisi e incapaci di sviluppare una politica estera, commerciale e di sicurezza coerente e davvero unica nei confronti dei paesi africani, questo modello si sta dimostrando perdente, non solo nei confronti della Cina, ma anche dal punto di vista della credibilità e dell’affidabilità dell’Europa come partner e come punto di riferimento. La conseguenza sarà che l’Africa verrà lasciata dagli europei in balia delle proprie contraddizioni politiche, economiche ed ambientali e in una situazione di grande debolezza, di frammentazione, di scarsa democrazia. Al contrario, se almeno in alcuni paesi, a partire dalla Francia, dalla Germania e dall’Italia, emergesse la volontà necessaria per creare uno Stato federale europeo, si porrebbero le condizioni per aprire una nuova era nei rapporti euroafricani e per l’avanzamento degli stessi processi di integrazione in varie parti dell’Africa, condizione indispensabile per un vero sviluppo del continente.

   

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