La recente elezione di Abdullah Gul alla presidenza della repubblica turca, dopo mesi di instabilità, ha riconsegnato il paese ad una sostanziale normalità, ha sopito gli animi, ma ha anche lasciato aperte molte questioni interne alla classe politica turca.

Il partito Giustizia e Sviluppo, di cui il neopresidente è un autorevole esponente, è la formazione politica che, da quasi dieci anni, guida la Turchia. È un partito di ispirazione islamica, del tutto simile alla nostra Democrazia Cristiana, ma non è certamente un partito confessionale come, ad esempio, Hamas palestinese, Hizbullah libanese o il Jamate Islami pachistano. L’AKP ha dato prova, da quando è al governo, di aver riposto la sua fiducia nelle istituzioni repubblicane, nella laicità dello Stato, ma soprattutto nello sviluppo economico e sociale della Turchia. Il governo turco ha avviato infatti una vasta campagna di riforme economiche e sociali che hanno avuto il merito di aver aperto il paese agli investimenti stranieri, ai grandi commerci internazionali, dando uno slancio all’economia interna, all’industria, alla finanza, al mercato immobiliare, in special modo nelle grandi città, Istanbul, Ankara, Smirne. Gli indicatori economici hanno segnato un notevole progresso che, soprattutto nelle grandi aree urbane, è tangibile, anche grazie alle riforme del mercato e della legislazione.

Tutto questo ha garantito al partito di Recep Tayyep Erdogan la vittoria alle recenti elezioni legislative, nonostante il clima fosse stato segnato da forti tensioni politiche e sociali, fomentate sia da apparati dello Stato legati alla tradizione, sia da settori vicini ai militari.

A preoccupare vasti settori della società è il progetto di modifica della costituzione vigente che risponde ad un chiaro obiettivo politico del partito Giustizia e Sviluppo. Il partito vuole avvicinare la politica ai cittadini, cercando di stendere un nuovo contratto sociale tra i cittadini turchi e lo Stato, rilegittimando la repubblica.

La legge fondamentale attualmente in vigore è il frutto del colpo di Stato militare del 1980 che ripristinò il potere della repubblica instaurando una democrazia protetta, fondata sull’imprescindibilità della laicità nella definizione dello Stato. Questa doveva costituire il perno della convivenza civile nel paese e, qualora fosse stata minacciata, prevedeva l’intervento diretto delle forze armate per ripristinarla.

Da quella crisi dunque non nacque una costituzione figlia della concertazione fra le diverse anime della politica e della società turca, ma una costituzione octroyée, concessa dalle gerarchie militari al paese.

In discussione c’è anche la modifica della legge elettorale proporzionale e, soprattutto, lo sbarramento al 10% che, al momento, tiene fuori gran parte del mondo politico turco, in special modo i partiti di sinistra e altre formazioni politiche che pure raccolgono molti consensi.

Per questi motivi, l’elite al potere vuole coinvolgere la società nella costruzione di una fase nuova nella storia della repubblica turca, senza mettere in discussione la laicità dello Stato, la forma repubblicana e l’adesione alla liberal-democrazia.

È chiaro, però, che questo progetto mette in fibrillazione i settori più conservatori dell’amministrazione statale, i militari, ma anche gran parte della società civile che, in difesa della laicità, ha riempito le piazze di Ankara e di altre città in tutta la Turchia. Tuttavia, la vittoria alle recenti elezioni politiche dimostra l’adesione della maggioranza dei cittadini alle sfide che il governo ha posto come caposaldo della sua azione politica per i prossimi anni.

Resta da vedere quale posizione assumeranno i militari nel prossimo futuro: l’assenza delle alte gerarchie delle Forze armate alla cerimonia di insediamento del Presidente della repubblica segna il disagio se non l’aperto dissenso dei capi di Stato maggiore con la classe politica che guida il paese.

Per quanto concerne la politica estera e strategica si registrano cambiamenti sostanziali e sorprendenti: da un lato la Turchia prosegue la sua alleanza strategica con gli Stati Uniti, ma dall’altro ha iniziato a svolgere una politica estera autonoma nella regione mediorientale, segnando una rottura rispetto alla tradizione precedente di relativo disimpegno dagli affari regionali (con la sola eccezione degli anni Cinquanta del Novecento) e stringendo rapporti importanti con i paesi principali, inclusi l’Iran e la Siria che, sulla scena internazionale, si contrappongono all’alleato americano ma contribuiscono in maniera decisiva agli equilibri regionali. Questa politica promossa da Erdogan e dallo stesso Gul, in qualità di ministro degli esteri, ha riconsegnato la Turchia al suo ruolo strategico classico, quello che ha ricoperto prima dell’instaurazione della repubblica da parte di Mustapha Kemal.

Le scelte turche, l’accorta capacità di tenere relazioni con tutti i soggetti della regione pone la Turchia come uno dei principali attori politici del Medio Oriente, ma anche come un ponte che Stati Uniti ed Europa possono utilizzare per iniziare a dialogare con partner “difficili” come Siria e Iran.

È con questo bagaglio politico e diplomatico che la Turchia si affaccia ad Occidente, ponendosi come punto d’approdo l’ingresso nell’Unione europea. L’inizio del processo di adesione, ha segnato un successo importante della politica di sviluppo attuata dal governo Erdogan e dai suoi predecessori.

Resta da chiedersi in quale Europa la Turchia entrerà e in quale tipo d’Europa la Turchia intende entrare. Certamente Ankara vuole diventare parte dell’Europa-mercato, dare stabilità all’economia e aprire definitivamente il suo paese all’Occidente, ma resta da capire il ruolo che la Turchia può giocare nell’attuale contesto europeo e nella partita dell’approfondimento politico che l’Europa, volente o nolente, dovrà compiere.

Va anche detto, però, che molti problemi per l’ingresso della Turchia in Europa provengono dagli europei stessi che, preoccupati della loro debolezza, vedono nella Turchia un pericolo per i rischi che proverrebbero dalla natura “islamista”del governo turco e dal fondamentalismo islamico nelle sue forme più fanatiche. Questo atteggiamento, che sovrastima il cosiddetto “scontro di civiltà” e attribuisce alla differenza religiosa un carattere discriminatorio per certi versi preoccupante, non tiene conto del fatto che la Turchia ha fatto parte per secoli del concerto delle potenze europee e ha sempre considerato l’Europa e, più in generale, il Mediterraneo, come suo naturale campo d’azione.

Attualmente la Turchia non è pronta per l’Europa per ben altre ragioni: è necessario infatti che completi il processo di modernizzazione e che si impegni, nei prossimi anni, ad aumentare la quota di ricchezza pro capite dei suoi cittadini, portando lo sviluppo economico al di fuori delle grandi aree urbane. Immediatamente collegati vi sono il problema dei diritti civili e politici (in questi anni troppi intellettuali hanno dovuto rispondere dinanzi ai magistrati delle loro opinioni politiche o di semplici inchieste giornalistiche diventate bersaglio di settori conservatori della classe politica e amministrativa) e la questione curda: come risolverà Erdogan, nel suo nuovo mandato, gli annosi problemi etnici e politici della regione orientale dell’Anatolia? Saranno concessi ai curdi, autonomia e diritti politici? Cambierà qualcosa nell’atteggiamento del governo turco?

Queste saranno solo alcune delle sfide alle quali l’élite al potere dovrà rispondere. Al momento, il governo agisce con grande equilibrio, ed è sperabile che continui su questa strada e che i militari non si lascino tentare da avventure nefaste. Il consenso che l’AKP gode nel paese sembra fortunatamente allontanare questa possibilità.

Da parte sua l’Europa dovrebbe avere la lungimiranza di sostenere questo delicato processo in corso nel paese non respingendo la Turchia, ma offrendole al contrario la possibilità di integrarsi in un’istituzione solida e vitale. Le attuali istituzioni dell’Unione europea non sono in grado di svolgere questa funzione. Per gli europei anche in questo caso il punto è di dotarsi di una struttura a diversi livelli di integrazione, con al centro un forte nucleo di paesi uniti politicamente, che le permetta di accogliere Ankara con reciproco vantaggio.

   

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