Mario Molina, il chimico premio Nobel nel 1995 le cui ricerche negli anni settanta del secolo scorso dimostrarono la correlazione tra la riduzione dello strato di ozono e l’impiego dei gas CFC, e Madhava Sarma, ex-segretario della Convenzione di Vienna e del Protocollo di Montreal negli anni novanta, hanno recentemente fatto il punto sui successi ottenuti sul fronte della riduzione del buco dell’ozono e del sostanziale fallimento, finora, della lotta ai cambiamenti climatici in due articoli pubblicati sul Financial Times, rispettivamente "Greenhouse gas cuts – The Lessons of ozone" pubblicato il 12-09-2007 e "The ozone treaty can do more" del 23-08-07.
Molina ha così riassunto lo stato delle cose: “Nel corso dei suoi vent’anni di applicazione, il protocollo di Montreal si è rivelato il più avanzato accordo internazionale in campo ambientale. Grazie ad esso sono state bandite nei paesi sviluppati e in quelli in via di sviluppo rispettivamente il 95% e tra il 50 e il 70% delle sostanze che avevano provocato l’allargamento del buco nell’ozono nella stratosfera, rendendo possibile un ritorno alla normalità entro il 2165. Per i soli Stati Uniti questo successo significa aver prevenuto milioni di morti riconducibili al cancro della pelle, decine di milioni di casi di cataratta e il risparmio nell’assistenza sanitaria di miliardi di dollari (secondo i dati forniti dall’Envirnomental Protection Agency, ndr). Ovviamente analoghi benefici sono valutabili per tutti gli altri paesi e per l’intero ecosistema. Ma c’è di più, il trattato sulla protezione dello strato di ozono ha avuto degli importanti effetti indiretti per limitare le emissioni di gas ad effetto serra, in quanto i gas CFC, oltre ad essere dannosi per l’ozono, sono dei potenti gas ad effetto serra.
Già ora possiamo dire che il trattato per l’ozono ha fatto di più, in termini di politica per prevenire i cambiamenti climatici, del protocollo di Kyoto: ci sono ormai evidenze che l’attuazione del protocollo di Montreal ha ritardato il processo di riscaldamento del pianeta di una dozzina d’anni. Esso ha cioè consentito di guadagnare una decina d’anni rispetto al superamento di quella soglia di temperatura considerata dagli scienziati come il “tipping point” oltre il quale il cambiamento climatico avrà effetti irreversibili e improvvisi”.
Questo successo, come ammonisce Molina, non è tuttavia definitivo né per quanto riguarda l’ozono, né per quanto riguarda il suo impatto sul riscaldamento del pianeta, in quanto i 191 paesi firmatari del protocollo di Montreal non si sono ancora impegnati a ridurre le emissioni dei gas HCFC, meno dannosi ma comunque non senza conseguenze, il cui impiego era stato concordato in regime transitorio per sostituire i CFC. Inoltre, oggi, oltre all’atteggiamento degli USA,che negli anni ’80 del secolo scorso consumavano da soli il 50% dei CFC, bisogna considerare quello della Cina.
Perché i successi ottenuti per proteggere lo strato d’ozono, nonostante i limiti evienziati, non si riescono ad ottenere per irdurre drasticamente le emissioni degli altri gas ad effetto serra e per prevenire il rischio di cambiamenti climatici?
Alcuni spunti utili per rispondere a questa domanda, vengono dalle considerazioni svolte da Cass Sunstein nell’articolo "Montreal versus Kyoto: A Tale of Two Protocols" (Harvard Environmental Law Review, Preliminary draft 8/18/2006).
In questo articolo Sunstein ha mostrato l’inconsistenza del punto di vista di coloro i quali fanno risalire principalmente alla cattiva volontà di questo o quel governo più o meno sordo ai problemi ambientali e più o meno conservatore ad affrontare le sfide globali: il protocollo di Montreal è stato promosso dall’amministrazione Reagan e osteggiato dagli europei (in primis dalla Gran Bretagna, grande produttrice di CFC all’epoca), quello di Kyoto è stato prima maldestramente formulato e poi tiepidamente sostenuto in America, sotto l’amministrazione Clinton-Gore prima di essere affossato sotto l’amministrazione Bush – quando il senato lo bocciò con 95 voti contro zero. Nel corso degli ultimi anni il protocollo di Kyoto è stato apprezzato a parole dai governi europei – sostanzialmente inadempienti - e preso seriamente in considerazione a livello sub-nazionale da alcuni Stati federati e aree metropolitane degli USA – in particolare dalla California.
In definitiva la spiegazione del successo del protocollo di Montreal e dell’insuccesso di quello di Kyoto va ricercata secondo Sunstein non nella maggiore o minore volontà ambientalista di questo o quello Stato, ma nella convergenza o meno degli interessi nazionali con quelli globali da parte di alcuni attori chiave della politica mondiale nelle diverse epoche storiche. Questa convergenza per esempio si verificò - e con bassi costi per gli USA - nel caso dell’ozono. Essa risulta invece oggi problematica - e per gli USA molto costosa - nel caso della prevenzione del rischio climatico globale. Queste considerazioni di Sunstein, avvalorate da dati e proiezioni, meriterebbero di essere approfondite in relazione allo stato del quadro di potere mondiale.
In questa sede si può incominciare a constatare che i dati e i commenti riportati da Molina, Sarma e Sunstein sono inequivocabili nel mostrare come nel caso del protocollo di Montreal furono decisive l’iniziativa e l’azione condotte dagli USA per bandire i gas responsabili di aver allargato il buco nell’ozono. Questi dati e commenti sono altrettanto inequivocabili nel mostrare che oggi, sul fronte del surriscaldamento del pianeta, esiste un ragionevole dubbio non sul fatto che stiamo andando verso dei cambiamenti climatici, ma piuttosto sulla distribuzione geografica dei suoi effetti negativi nei prossimi trenta-quarant’anni. Per esempio emerge sempre più chiaramente che l’interesse di USA, Cina e Russia non coincide nel breve medio periodo con quello globale per quanto riguarda i provvedimenti da prendere per ridurre i gas ad effetto serra. Questi Stati evidentemente non intendono, al di là delle dichiarazioni di facciata, promuovere unilateralmente delle politiche che sarebbero sicuramente onerose nell’immediato e che rischierebbero di indebolirli sul piano geopolitico. I dati riportati da Sunstein sulle previsioni che incominciano a circolare sulle possibili perdite nei diversi continenti in termini di riduzione del PIL a seguito del surriscaldamento del pianeta di 2,5 gradi, sono eloquenti: India - 4.93, Africa - 3.91, Europa occidentale - 2.83, High income OPEC - 1.95, Europa orientale - 0.71, Giappone - 0.50, United States - 0.45, Cina - 0.22, Russia + 0.65.
In questo quadro gli appelli alla mobilitazione dell’opinione pubblica come quello lanciato recentemente dal Worldwatch Institute, sono destinati a cadere nel vuoto. Questo appello chiede agli europei di far pressione sul Congresso USA affinché promuova una legislazione che segua la raccomandazione dell’Unione europea agli Stati membri di ridurre dell’80% le emissioni di gas ad effetto serra entro il 2050. Due dati minano la credibilità di simili appelli. Il primo dato è che entro il 2025 l’84% del totale delle emissioni di anidride carbonica dipenderà dai paesi considerati oggi in via di sviluppo (tra cui Cina, India, Brasile e Messico). E’ quindi soprattutto con questi paesi che sarebbe necessario fissare nuove regole e nuovi accordi. Il secondo dato è l’inadeguatezza dell’Europa a farsi portavoce di politiche globali.
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La lezione che se ne deve trarre è che non si possono affrontare le grandi sfide globali se non si crea il quadro nell’ambito del quale interessi nazionali ed interessi globali possano convergere e, in prospettiva, essere governati a livello mondiale garantendo la sicurezza, la giustizia e lo sviluppo equilibrato. In un clima di crescente anarchia e competizione come quello che domina attualmente i rapporti internazionali, tutto ciò è impossibile. L’esperienza storica degli ultimi decenni conferma che ciò che era diventato pensabile e possibile in termini di rilancio della cooperazione e della sicurezza internazionale ai tempi della distensione Reagan-Gorbachev e della fine della guerra fredda, è diventato una chimera in una situazione dominata da timori, tensioni e corse al riarmo.
Di questa degenerazione sono largamente responsabili gli europei e, tra essi, in particolare quelli da cui maggiormente dipendeva e dipende tuttora la creazione di un potere europeo capace d’agire, di influenzare le decisioni dei vecchi e nuovi poli mondiali, e di svolgere un ruolo riequilibratore del potere in diverse parti del mondo.
Se gli europei vogliono contribuire ad affrontare le sfide globali, non possono limitarsi ad allargare e a cercare di consolidare un’Unione europea fondata su un modello organizzativo astatale sempre più marginalizzato nella politica internazionale. Se si vuole condividere con gli USA, la Cina, la Russia, l’India e il Giappone la responsabilità e l’onere di assumere decisioni di portata storica e globali, occorre dotarsi del potere necessario per farlo. In breve occorre fondare uno Stato federale europeo a partire da un Patto federale inizialmente sostenuto e condiviso almeno da Francia e Germania, con il sostegno dell’Italia e auspicabilmete di qualche altro paese tra i fondatori, che resti aperto a quanti vorranno successivamente aderirvi.
Divisi e singolarmente presi gli Stati europei sono destinati a subire passivamente le conseguenze del deterioramento sia del clima naturale sia di quello politico-internazionale.

 

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