Newsletter n. 15

Secondo uno studio commissionato dall’OCSE, l’andamento altalenante (verso l’alto) del prezzo del petrolio non avrà le stesse conseguenze nelle varie parti del mondo (*). Esso avrà infatti delle conseguenze economiche irrilevanti per gli USA, che posso no contare su una buona quota di produzione di greggio nazionale e su ampi margini di miglioramento dell’efficienza produttiva (oggi consumano in media il doppio per unità prodotta rispetto alle economie avanzate); trascurabili (con una diminuzione dello 0,5% del PIL) per quelle regioni avanzate che, come l’Europa, pur essendo completamente dipendenti dalle importazioni di greggio per copri re i propri fabbisogni interni, han no da tempo innalzato i prezzi al consumo dei prodotti petroliferi; lievi per le galoppanti economie cinese e indiana, che continuerebbero comunque a crescere molto di più di quelle europee; drammatiche (con una diminuzione tra l’1.6 e il 3% del PIL) per i paesi indebitati e poveri dell’Asia e del l’Africa.

Quindi, se si considera la questione dal solo punto di vista economico come fa l’OCSE e come ha ribadito un rapporto del Dipartimento per l’energia USA (**), il problema per l’Occidente sarebbe minimo. Infatti, se è vero che il consumo mondiale di petrolio è fortemente aumentato negli ultimi anni – la Cina da sola ha contribuito per il 36% a questo aumento – è anche vero che finora la produzione di greggio, grazie anche alla produzione dei paesi non OPEC e della Russia in partico lare, ha addirittura superato il fabbisogno. Non saremmo perciò, secondo questi studi, di fronte ad un problema di scarsità del petrolio, né si dovrebbe temere un prossimo esaurimento delle riserve.

Anzi, sempre secondo il rapporto USA, la produzione di greggio potrebbe addirittura notevolmente aumentare, al punto da riuscire a soddisfare i consumi previsti al meno fino al 2025. Non tutti in realtà sono così sicuri di queste previsioni, e molti mettono in discussione gli stessi dati forniti dai paesi produttori negli ultimi anni, Arabia Saudita in testa, che pur non avendo trovato nuovi giacimenti significativi entro i propri confi ni, ha più che raddoppiato le sti me ufficiali delle proprie riserve (***).

Emerge però chiaramente, in dipendentemente dalle analisi ci tate, che ciò che preoccupa maggiormente è il fatto che il peso della produzione di greggio sul totale da parte dei paesi arabi non sembra destinato a diminuire nei prossimi vent’anni. E’ dunque la prospettiva di una prolungata (e priva di alternative) dipendenza delle economie industrializzate da un’area così instabile come quel la medio orientale e del Golfo ad alimentare i timori sul futuro del l’andamento del prezzo del petrolio. Si tratta, a ben vedere, di ti mori che hanno un fondamento reale: se l’Arabia Saudita facesse mancare dall’oggi al domani la sua quota di produzione di greggio il prezzo del petrolio potrebbe facilmente raggiungere e supera re la quota degli ottanta dollari al barile (tradotta in dollari del 2003) raggiunta nel 1979 con la crisi iraniana. E a quel punto le analisi ottimiste dell’OCSE dovrebbero lasciare il campo a scenari ben più cupi. Per il momento i paesi consumatori si consolano considerando che le tensioni sui prezzi di questi ultimi mesi sono ancora, nonostante tutto, modeste se raffrontate al recente passato: alla fine degli anni Novanta, sulla spinta della ripresa economica mondiale, i prezzi del petrolio erano addirittura triplicati nel giro di due anni. Ma la situazione in Iraq e quella in Arabia Saudita non lasciano ben sperare per il futuro. E i mercati iniziano ormai a riflettere i timori di una scarsità di greggio sempre più incombente legata a fattori politici.

Si tratta, a ben vedere, di linee di sviluppo del mercato energetico e di rischi che in Europa avrebbero dovuto essere già noti da tempo alle classi politiche e di governo, nonché ai movimenti ecologisti, che pure si sono sviluppati sulla scia del primo shock petrolifero (1973). Ma in trent’anni non è stato fatto nulla per diminuire significativamente la dipendenza dei sistemi produttivi nazionali dal petrolio – per alleggerire così la loro esposizione nei confronti dei paesi arabi –, e dall’uso dei combustibili fossili in generale – per contribuire davvero alla riduzione delle emissioni dannose per l’ambiente. Né ci si è preoccupati della necessità di instaurare un ordine mondiale che rendesse possibile il fatto di avviare una più giusta politica di cooperazione fra paesi produttori e paesi consumatori di materie prime. Oggi gli europei, dopo essere stati per decenni spettatori passivi di quanto accadeva sulla scena internazionale, sostengono la necessità di rendere l’Europa capace d’agire e di affermare il multilateralismo negli organismi internazionali, ma non si pongono il problema di dotarsi degli strumenti necessari per realizzare questi obiettivi – così come fanno mostra di approvare il protocollo di Kyoto senza curarsi del fatto che negli ultimi due anni i paesi europei si sono già resi responsabili dell’aumento dell’11% dei consumi mondiali di petrolio.

Questi atteggiamenti mascherano la rassegnazione e l’impotenza di un continente che non è in grado di esprimere una politica energetica degna di questo nome, né tanto meno è capace di dotarsi di una politica estera e di difesa per contribuire a sciogliere i nodi politici mediorientali, dai quali dipende l’andamento del prezzo del greggio.

Purtroppo, però, non è più tempo di rendere omaggio a parole all’idea di Europa e alla necessità di preservare l’ambiente per le future generazioni. Gli europei devono decidersi a tornare a svolgere un ruolo attivo e responsabile sulla scena mondiale, e per far questo non possono far altro che avviare la creazione dello Stato federale europeo.

 

Editoriale

Il nuovo Parlamento non solo avrà i limiti dell’attuale, ma opererà in un’Unione che non è riuscita a coniugare la sua nuova vastità con un rafforzamento delle sue istituzioni.

Il risultato cui porterebbero le cooperazioni rafforzate sarebbe un approfondimento delle differenze e delle divisioni all’interno dell’Unione.

Vi è spazio per avviare e sviluppare, in paesi difficili ma cruciali, come Francia e Germania, una campagna coraggiosa e determinata...

Pubblichiamo ampi stralci di un articolo di Altiero Spinelli apparso su AZIONE FEDERALISTA nel Novembre 1955 che, a distanza di quasi cinquant’anni, è ancora di grande attualità.

Il futuro dell’Europa a venticinque.

I Paesi europei non hanno ancora saputo rispondere alla domanda posta da Tietmeyer nel 1998: “L’Unione politica è una condizione o una conseguenza dell’Unione monetaria?”

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